Sarajevo, 30 settembre 1993
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Seduti fuori un piccolo bar, in via Radojka Lakic (partigiana nata nel 1917 e fucilata nel 1941) io e Edoardo aspettiamo il caffè. Qui, in piena guerra, ho gustato il miglior Nescafè della mia vita, preparato con cura maniacale, con lo zucchero sbattuto a mano, per mascherarlo da espresso con la crema. Per noi giornalisti, costa tre marchi tedeschi. Troppi, ma ben spesi.
Una giornata di lavoro sta per finire. La tregua sulla città regge. Dalle loro postazioni sulle montagne, i militari serbi non stanno sparando. La guerra sembra lontana anche se, a pochi chilometri da qui, gli ex-alleati croati e musulmani si combattono aspramente. Mostar est è allo stremo, assediata da soldati che pregano a Medjugorje. La pulizia etnica è spietata e reciproca ovunque. Nemmeno i villaggi più sperduti sono risparmiati. Perfino Počitelj, sulla strada che costeggia la Neretva verso il mare, è rasa al suolo. Era il villaggio degli artisti e dei pittori. Hanno piantato una croce bianca alta cinque metri davanti alla moschea bruciata. Per intimidire, non per pregare.
L’altro ieri il “Bošnjački Sabor”, un parlamento autoproclamato, tutto musulmano, ha respinto l’ennesima proposta di cessate il fuoco della diplomazia internazionale, basata sulla partizione su base etnica del paese. Oggi il parlamento bosniaco ufficiale ha ratificato quella decisione.
L’arrivo del caffè coincide con un sibilo agghiacciante sopra di noi, seguito da un’esplosione che fa male. Prendo le macchine fotografiche e corro dov’è caduta la granata, in via Maresciallo Tito (partigiano, presidente Jugoslavo e fondatore del movimento dei non allineati, nel 1961). Un altro sibilo mi paralizza le gambe. Sento vibrare il muro sul quale mi sono appiattito. Il secondo colpo ha colpito l’altro lato dell’edificio. Mi affaccio dall’angolo: la strada è deserta. Metto il ventotto e misuro la luce, piatta e senza ombre. Mi avvicino, ma un muro scheggiato e un po’ di calcinacci non significano niente. La foto non c’è. Penso ai feriti che ho visto. Non ai morti, ma alle urla dei feriti leggeri, con le schegge in corpo e le ossa fratturate.
Un uomo grida di mettermi al riparo. Vicino la “vječna vatra” (la fiamma eterna di Sarajevo che dal 6 aprile 1946, anniversario della liberazione, ricorda i caduti nella guerra contro i nazisti), sull’altro lato della strada, c’è un androne. Una decina di persone sono lì dentro, strette in silenzio. “Rimani qui”, dice. Occhi che mi guardano, espressioni tese di gente dignitosa. Questa è la foto. Stringo la macchina, l’obiettivo è giusto, ma esito. Un’altra esplosione. Scappo fuori, senza avere avuto la forza di scattare. Lo rimpiango. Non ho retto quegli sguardi. Mi sentivo un estraneo. Privilegiato e giudicato per aver scelto di essere lì (forse sono arrossito). Almeno ora sono sotto tiro, come gli altri. Guardo quello che succede attraverso una lente. La macchina è uno scudo che protegge e tiene a distanza.
Un altro sibilo, meno forte, l’esplosione tarda (un paio di secondi?), è più lontana. Vedo movimento verso il mercato. Mi avvicino, monto il duecento, seleziono un tempo veloce, controllo la luce. Una ragazza mi corre incontro. Inquadro, scatto e maledico di non avere impostato il motore sullo scatto continuo (per non sprecare pellicola). Troppo tardi, ormai mi è addosso e mi supera, ignorandomi. E’ finita. Scatto ancora. Una coppia che corre, una donna dall’altro lato della strada, ma tutto sembra di meno.
Ho in testa lo sguardo della ragazza che corre. Quella ragazza non correva per paura, ma per rabbia. Essere entrambi sotto tiro non ci mette sullo stesso piano. La sua rabbia la posso intuire, ma non condividere. Lei è a casa sua e stanno sparando sulla sua città, le sue abitudini, la sua vita. Io sono un ospite volontario (e retribuito). Parte della sua rabbia deve essere anche per me, che ho rubato l’intimità di quella corsa. Che ci faccio qui? “Dovere di cronaca”, certo, ma ripeterselo non è sufficiente. Lo stomaco si contrae di nuovo per un’esplosione più vicina, e i pensieri spariscono.
Passano alcuni minuti. Ora c’è silenzio. Penso che uno scatto buono forse l’ho fatto. Non ho mai smesso di camminare, di guardarmi intorno. Non ho visto feriti, per fortuna. Mi sono sempre sentito uno sciacallo, dopo quelle foto.
Cerco di ragionare. Pochi giorni fa il primo ministro serbo bosniaco Vladimir Lukic, a Pale, ci aveva rilasciato un’intervista rassicurante. Sembrava estraneo a quello che succedeva nel resto della Bosnia. Per lui la guerra era una storia residua di terre contese tra croati e musulmani, poi si sarebbe ufficializzata la divisione del paese. E adesso? Perché hanno ripreso a sparare su Sarajevo? Volevano contestare la decisione del “Bošnjački Sabor”? Qualcuno scriverà che queste granate sono solo un monito. Si può morire per un “monito”? Che pensava la ragazza che correva? Perché non intervistare lei, piuttosto che i soliti tromboni? Non devo pensarci adesso, sono qui per scattare foto e raccontare fatti.
Torno verso il bar. I caffè sono ancora sul tavolo. Edoardo mi chiama urlando e insultandomi. Per sdrammatizzare, faccio un piccolo coup de théâtre: prima di entrare prendo i piattini con le tazzine piene. Voglio dire che va tutto bene con un gesto. Anche nel bar è pieno di gente, come nell’androne. Entro e le mani iniziano a tremare forte, non posso farci niente. Il caffè, ormai freddo, schizza fuori. Tutti ridono. Almeno è servito a questo.
Edo mi abbraccia (sento ancora quella stretta). Una ragazza con un occhio bendato mi offre una grappa. Si chiama Amra. Sorride. Poi saprò che il padre le è morto davanti pochi mesi fa, proteggendola con il corpo, quando una granata esplose mentre uscivano di casa, in via Mehmed Pascià Sokolovic (Gran Visir ottomano che fece costruire il ponte sulla Drina a Visegrad, nel 1571. Suo fratello era Makarije Sokolovič, Patriarca cristiano ortodosso di Peć).
Le targhe stradali, color rosso bruno, raccontano storie di resistenza e inclusione. Non potrebbe essere altrimenti. Siamo a Sarajevo.
Mario Boccia
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30 Settembre, una ragazza corre a Sarajevo
di Andrea Semplici
Il 30 settembre di venti anni fa, una ragazza corre lungo via Maresciallo Tito. Sta fuggendo. Stanno cadendo granate nel cuore di Sarajevo. Si sta combattendo l’ultima guerra del ‘900. Una guerra in Europa. Si muore a fianco di casa nostra. Mario Boccia, fotoreporter italiano, era lì e riuscì a catturare la fuga di quella ragazza, il volo che facevano i suoi passi, lo stupore più che la paura nei suoi occhi. Nessuno poteva credere a ciò che stava accadendo…
Conoscevo bene quella foto. L’ho sempre amata fra le molte che amo di Mario Boccia. Ne ricordavo la storia, ma solo pochi mesi mi sono accorto, durante una mostra fiorentina, della data nella quale era stata scattata. Noi di Erodoto108 siamo sensibili agli anniversari. Sono memoria, ricordo, storia. A volte, nostalgia. Da mesi pensavo che sarebbe stato giusto ripubblicare quella foto il 30 settembre di quest’anno. Ho chiesto a Mario e lui ci ha donato anche la storia di quella fotografia. Uscirà, fra dieci giorni, sul prossimo numero di Erodoto108, il quarto numero di una rivista a cui noi stessi guardiamo con stupore. Ma volevamo che questa foto fosse on-line proprio il 30 settembre. Oggi. E’ un altro dono. Che anticipa e annuncia la rivista.
Assieme a noi, pubblicheranno questa foto Repubblica.it e l’Osservatorio Balcani e Caucaso. La foto sarà pubblicata anche a Sarajevo. E noi speriamo di ritrovare ‘la ragazza che corre’.