Testo e foto di Isabella Mancini/

IMG_2055


Viviamo come spazzatura in un bidon
e. Ci svegliamo tardi perché qui il tempo non esiste, non esistono orologi, la vita qui è asfissiante”.


A Bizerte, nel nord della Tunisia, fino a pochi mesi fa c’era uno degli stabilimenti industriali più grandi del paese, era di proprietà italiana, produceva scarpe, impiegava tremila persone. Dopo la rivoluzione dei Gelsomini (2010/2011) i vecchi accordi sui diritti dei lavoratori, ovvero zero diritti (nessun diritto di sciopero, nessun diritto di malattia, salari bassissimi) sono saltati. Dal 2011, nell’arco di un paio di anni, le imprese italiane che hanno chiuso bandone sono state almeno 150 perché le rivendicazioni salariali, gli scioperi ad oltranza, pesano sulle tasche dei padroni. La disoccupazione è uno dei prezzi della democrazia tunisina: l’Istituto Nazionale di statistica tunisino la attesta attorno al 16%. Disoccupazione e inflazione, indebitamento dello Stato, che si rivolge al Fondo Monetario Internazionale (che non è notoriamente un ente caritatevole), e instabilità politica. Se le industrie calano cala anche quella del turismo: con la rivoluzione del 2011 il turismo francese, soprattutto, ma anche italiano è diminuito. Nel Rapporto ILO (International Labour Organization) del 2011 sulla situazione economica tunisina e sulle prospettive lavorative necessarie per una crescita sociale equa e giusta veniva evidenziato come il tasso di disoccupazione giovanile, che si attestava attorno al 30%, veniva sistematicamente nascosto dagli alti indici di crescita, tappeto sotto al quale venivano nascosti anche i pochi investimenti privati, la mancanza di formazione di manodopera qualificata, scarsi investimenti privati, salari bassi, forte emigrazione, persistenti disparità di genere, quasi assenza di protezioni sociali.
IMG_2065


Un penny non rimane a lungo in tasca, si passa velocemente dalla giovinezza alla vecchiaia, il cervello è indebolito dalla droga”.

Vento che solleva nubi di polvere, cielo plumbeo e temperature rigide. Tunisi ci ha accolto così. Le palme che costeggiano i viali aprono l’immaginazione verso altri colori. Il bianco delle case riflette il bianco delle nubi, l’asfalto e le sue pozze il grigio della pioggia.

Tunisi è grande, sinuosa, il suo profilo è un saliscendi di colline, incredibili palazzoni moderni si stagliano a fianco di piccole case senza tetto, tutte bianche e con le porte azzurre.

Ci sono locali e bar dove si discute animatamente di politica, si beve birra mentre si ascolta una gara di rap, si guarda un film. Tutto normale? In qualunque paese europeo ma non in Tunisia fino a quattro anni fa. Il passaggio è stato forte, i costi della democrazia sono alti e non sempre sono comprensibili dalla popolazione.

Tunisi però è una città gentile, orgogliosa, bella e appassionata: nei suoi boulevard risuona musica, tanta. Come quella di Kafòn e Hamzaoui Med Amine, che due anni fa sono stai al top delle classifiche di tutto il paese con una canzone che parla della “houma”, il quartiere, ma che in realtà è anche qualcosa in più: è ordine sociale, è l’affermazione di un sentimento di appartenenza a una identità comunitaria di prossimità spaziale all’interno della città, è fratellanza, è minimo comun denominatore di povertà, vecchiaia e droga, è famiglia. I due cantanti hanno parlato degli “houmani”, gli abitanti della houma ed hanno trasformato la loro canzone in un inno popolare perché in migliaia di ragazzi si sono riconosciuti in questa descrizione di nichilismo e mancanza di speranza. Se noi, dalla sponda nord del Mediterraneo, pensiamo che la rivoluzione tunisina sia l’unica riuscita il costo di quella democrazia, debole e fragile, tornano a pagarlo quelli che fino a ieri pagavano il conto della dittatura, gli stessi che hanno pagato con la vita. Da quando Ben Ali se ne è andato è successo tanto in questo paese: le elezioni e la maggioranza relativa al partito islamico moderato (Ennahda), le manifestazioni contro la bozza di Costituzione, il governo che si spacca, l’assassinio di Chokri Belaid, segretario del Partito dei patrioti democratici, l’assassinio di Mohamed Brahmi, nel luglio del 2013, e ancora tensioni, manifestazioni. La nuova Costituzione entra in vigore nel gennaio del 2014, alle elezioni ebbe la meglio il partito laico e i tunisini scelsero Beji Caid Essebi (con trascorsi con Habib Bourghiba) come presidente. I contraccolpi della crisi economica però non lasciano tregua, i delusi della rivoluzione sono facile preda dell’estremismo religioso, la Libia implode sotto i colpi di clan e tribù, dall’Algeria continuano a passare carichi di armi e benzina di contrabbando sotto la pancia del monte Chambi.

Oggi inizia il World Social Forum in una città ferita da un attentato terroristico. Non c’è una sola lettura, una sola parola che possa spiegare la complessità della trama che compone il tappeto su cui la Tunisia sta volando e per chi è attratto solo dai viaggi low cost e villaggi vacanze probabilmente è tutto così inspiegabile. Ma Tunisi c’è, ha risposto con concerti, musica, ancora, incontri, dibattiti, il Collettivo tunisino della marcia per la legalità e contro il razzismo organizza oggi un incontro sul tema alla facoltà di Scienze. Ieri si è tenuta la marcia di apertura del WSF che già nel 2013 era venuto in Tunisia con le sue 50mila organizzazioni di 150 paesi diversi. L’idea che un altro mondo sia possibile c’è chi ancora la sta seminando anche al di là della paura e del terrore.

Ecco che viaggiare torna ad avere un senso, conoscere persone, condividere con loro ansie e entusiasmi per quello che potrebbe essere solo un sogno e quella realtà che sarà, scrivere di tutto questo ha un senso. E si può cantare assieme ““houmani, ye …”

IMG_2048 IMG_1779