Al vecchio Sant’Anna le pareti erano costellate da quadri. Mi soffermavo a scrutarli nei particolari. Non so se ci siano ancora, non ho avuto modo di tornarci da quando il grosso dell’ospedale è stato trasferito a Cona. Una mattina rifacevo il percorso a ritroso, dagli ambulatori verso l’uscita laterale, in via Mortara. A un tratto riconobbi una figura nota, il volto di una donna. Lei se ne avvide, mi sorrise, lo fece solo perché le ricordavo qualcuno. Perché ero un ragazzo dai capelli ricci e lunghi, con la barba incolta e la borsa dell’università a tracolla. Allora le dissi delle parole interrotte, intermittenti: “sarei stato fiero di essere suo figlio”, questo le dissi.
– “L’avrebbe fatto chiunque”, lei rispose, poi aggiunse, visibilmente commossa, “basta così, altrimenti finiamo col piangere qui, davanti a tutti”.
Sono passati nove anni da allora. Sulla Darsena del Po di Volano sfreccia un motoscafo, la scia si perde verso gli argini. Seguono due canoe dal ritmo sostenuto. Supero il ponte e sono in via Bologna. È sabato, sono le quattro del pomeriggio. Ho la bici, la macchina fotografica, ma non il taccuino. Sempre quella sensazione, sempre la smania di dare una forma anche solo a un lembo di giornata. L’irrequietezza o è un dono o una condanna, questo dipende da come la si declina. Scelgo di farla passare dalla testa fin dentro il corpo, di muovermi finché non passa.
È un sole che divide tutto il mondo in due singole parti, quello che ho sulla testa: esistono l’ombra e la luce. Oggi so benissimo dove sono diretto, sono partito in bici consapevole della strada che avrei percorso. Lascio alle spalle la banca di Siena, quella delle Marche, della Romagna, un’osteria, un ristorante cinese, un poliambulatorio, una gelateria e una gioielleria, poi smetto di osservare la fila infinita di negozi. Svolto in via Ippodromo. Dopo qualche metro, la strada è chiusa e ha inizio un parco alberato con delle panchine di legno. L’erba è stata tagliata da poco e l’odore si infila nelle narici. Ai lati della strada si ergono dei caseggiati. La costruzione più vistosa è proprio la sede dell’Ippodromo. Dall’esterno il muro di cinta ricorda vagamente un lager nazista, uno di quei campi di concentramento mostrati tante volte in tv. Fermo un’auto. La ragazza alla guida dice che all’interno ci sono i preparativi per una festa, lei è venuta a cucinare per oltre trecento persone.
Giro ancora un po’, quando all’improvviso riconosco, al fianco sinistro dell’ingresso principale dell’Ippodromo, quello che cercavo quando sono uscito di casa questo pomeriggio: un rovo di spine e rose, una sciarpa della Spal, la lapide e la foto di Aldro. Eccolo! Qui è morto Federico Aldrovandi, all’alba del 25 settembre duemilacinque, dieci anni fa. È morto in seguito a una colluttazione con degli agenti della Polizia di Stato, “un ragazzo ucciso da quattro individui con una divisa addosso”, ha scritto a proposito Lino Aldrovandi, il padre di Federico. Ho in mente questo luogo e rivedo il corpo di Federico tumefatto, sdraiato supino sull’asfalto, con le braccia allargate che disegnano una croce, così come lo ha mostrato Filippo Vendemmiati nel suo bel documentario, “È stato morto un ragazzo”.
Rivedo Federico e vado a cercare le parole scritte dal giudice Caruso nell’introduzione alle motivazioni della sentenza: “Tanti giovani studenti, ben educati, di buona famiglia, incensurati e di regolare condotta, con i problemi esistenziali che caratterizzano i diciottenni di tutte le epoche, possono morire a quell’età. Pochissimi, o forse nessuno, muore nelle circostanze nelle quali muore Federico Aldrovandi: all’alba, in un parco cittadino, dopo uno scontro fisico violento con quattro agenti di polizia, senza alcuna effettiva ragione”.
Quanto può essere profondo il dolore di un padre e di una madre? Ha fatto in tempo a svelare la verità, Federico. Il suo cuore ha parlato per lui dopo la morte. Ci sono volute le indagini, certo. Ci è voluto il coraggio di Lino e Patrizia. Poi quel fotogramma che ha evidenziato l’ematoma sul cuore. È stato il corpo di Federico a non tacere, a testimoniare che le percosse sono state letali.
Sono passati dieci anni dalla sua morte. Un sms mi ha appena rivelato che l’anno prossimo lavorerò nella scuola che lui frequentava. La scuola dove non si è diplomato. In dieci anni lui è rimasto un ragazzo e io ho appreso il mestiere del padre. Quando incontrai Patrizia Moretti, quel giorno all’ospedale, anch’io ero solo un ragazzo. Oggi so che il dolore di un giovane non è quello di un padre. Da allora Ferrara, almeno ai miei occhi, non è stata più la stessa. Questa città sorniona, la sua tranquillità apparente ha fatto da contraltare al dramma. È come se Ferrara e la sua pacatezza avessero acuito il dolore per l’accaduto. La città è lì a stendere il suo velo d’amarezza e dire che non era affatto necessario, che questa è una città di provincia dove non dovrebbe succedere mai nulla del genere. Purtroppo è accaduto. Federico è rimasto solo troppo presto, è accaduto in via Ippodromo, sullo stesso selciato che sto calpestando in questo momento. La sua è una di quelle morti ingiuste che rendono la vita stessa intollerabile e il suo prosieguo un’enorme distesa di recriminazioni. C’è qualcosa di profondamente irrazionale nel nostro modo di intendere la vita. Mi riferisco all’incapacità di riconoscerci nel prossimo. Tutto nasce da questa ignobile malattia, da questa perdita di memoria e coscienza che è il nostro vero peccato originale.
Ecco, Federico è qui a ricordare questa amnesia. A ricordare il dolore di un padre e di una madre che deve essere il nostro, anche se questo non riuscirà a lenire alcuna ferita.