Testo e foto di Francesco Parrella
Mancano ancora cinque ore, ma è già tardi. C’è scritto anche sulla porta dell’albergo che bisogna liberare la camera entro le 12, ed è l’una. Il treno per Hanoi parte alle 18.14. Dall’albergo la stazione di Nanning si raggiunge facilmente a piedi, nonostante il peso di qualche borsa e un caldo asfissiante. Siamo nella Cina meridionale, nella provincia del Guangxi, e Nanning, città di frontiera, è un po’ una tappa obbligata per chi in treno vuole raggiungere la capitale vietnamita, che dista appena 400 chilometri a sud, ma occorre una notte intera per percorrerli.
Il giorno prima, arrivando a Nanning da Pechino, dopo 24 ore di viaggio in treno, con l’atteso caldo umido tipico delle zone tropicali, ci si imbatte, uscendo dalla stazione, in uno sgradevole quanto improvviso cattivo odore di scarichi fognari. Eppure Nanning non appare una città sporca. Le vie sono pulite e così gli spazi pubblici. Per giunta è anche una città moderna, dove il nuovo ha il volto degli edifici grandi ed eleganti di banche e società commerciali o di insegne luminose che raggiungono vette sempre più alte. L’albergo dista circa un chilometro dallo scalo ferroviario. Ad attendere i passeggeri all’uscita dalla stazione ci sono decine di tassisti che in un frastuono di voci cercano ciascuno di accaparrarsi qualche cliente. Guadagnato il largo, passando su un ponte del fiume che attraversa il centro cittadino, si vede una chiazza di liquami nell’acqua, all’altezza di una curva in cui l’argine di cemento si fa più largo. Malgrado ciò, quasi non s’avverte più quell’odore fastidioso di prima, e c’è chi dall’alto del dodicesimo piano se ne sta comodamente seduto sul balcone del suo appartamento che affaccia dritto sulla chiazza grigia che galleggia immobile sul fiume.
Nanning è una città industriale e una città di commerci. Di piccoli opifici, di pacchi e di merci che si muovono, di pony express. C’è anche un importante snodo ferroviario dell’alta velocità, ma è dalla stazione centrale nel centro cittadino che parte il treno per Hanoi. I controlli di sicurezza all’ingresso sono molto meticolosi come avviene un po’ ovunque nelle stazioni in Cina, e gli addetti cinesi appaiono addirittura più scrupolosi quando a passare il varco sono altri asiatici, che sono poi la maggior parte dei passeggeri. Nella grande sala d’attesa all’aperto, ma coperta, prima di salire i gradini che portano nella hall della stazione i posti a sedere sono quasi tutti occupati. Viaggiatori thailandesi, vietnamiti, cambogiani, e per lo più cinesi, aspettano pazientemente che parta il proprio treno. Di fronte a me è seduta una ragazza che mi incuriosisce, e sorride quando la guardo. Ha un viso lungo con capelli lisci, lunghi, e una frangetta che cade dritta sulla fronte. E’ magra e di media statura e indossa una camicia a fiori bianca con un pantalone giallo di cotone leggero racchiuso in delle calze elastiche di nylon marrone che arrivano sotto le ginocchia. Ai piedi ha delle scarpe bianche alte con delle grosse zeppe nere, che starebbero bene ad una ballerina in discoteca, meno a chi col suo abbigliamento sembra ispirarsi piuttosto a dei costumi tradizionali. Poco dopo la vedo agitare il passaporto nella mano e intuisco anche la sua domanda rivolta a sapere di dove fossi. Lei è vietnamita, ha 33 anni, e quella che appare nella foto ‘ufficiosa’ che vedo poi sul suo documento sembra un’altra persona, dove assomiglia tanto ad una severa impiegata in un ufficio delle tasse. Un’ora più tardi la ritroverò qualche cabina più avanti nella stessa carrozza del treno.
Il treno per Hanoi ha solo due carrozze, fa poche fermate, e viaggia lento tutta la notte. Ogni cabina ha quattro cuccette e nella mia tre trentenni cinesi hanno già occupato ciascuno il proprio posto. Vanno tutti e tre ad Hanoi per lavoro, e chiedendomi per quale compagnia di costruzioni lavorassi, pensano che viaggi per lo stesso motivo. Gli spiego che vado ad Hanoi per visitare la città dopo essere stato a Pechino, ma mi accorgo dai loro volti di non essermi fatto capire. Ad un tratto uno dei tre ragazzi sembra dimenticare anche quel poco d’inglese con cui fino a poco prima eravamo riusciti a comunicare. Prendo quindi la guida di Pechino che avevo con me, la apro e mostro loro le pagine con la Città Proibita, il Palazzo d’Estate, la Grande Muraglia, aggiungendo più volte in inglese la parola ‘tourist’. Non c’è bisogno di aggiungere altro e sui loro volti ora sembra di leggere un leggero sorriso. Per una buona mezz’ora tutto il discorso ruota intorno al grado di ‘facilità’ delle ragazze vietnamite, italiane e cinesi. E l’argomento suscita tanto interesse anche tra chi, tra i tre, è rimasto finora distrattamente in disparte a giocare con lo smartphone. Il discorso s’interrompe quando dalla cabina rimasta aperta intravedo la ragazza conosciuta poco prima di salire sul treno. Entra nello scompartimento sorridente e si presenta anche agli altri passeggeri. Non so se sia lei a conoscere qualche parola di cinese o loro qualche parola vietnamita ma riescono a capirsi senza troppe difficoltà. La ragazza torna qualche minuto dopo con dei litchi in una busta di plastica e ce li offre. Sono frutti tipici della Cina meridionale, ricoperti da una sottile crosta rossa, con all’interno, sotto la polpa bianca, un grosso nocciolo, simile alle nespole. Nessuno a quell’ora sembra aver voglia di mettersi a sbucciare le ‘ciliegine cinesi’, così vengono chiamati i litchi, e il treno, è circa mezzanotte, arriva a Pingxiang, la frontiera cinese. Scendiamo tutti dalla carrozza insieme ai bagagli. L’ufficio immigrazione è una grande sala, anonima e grigia, con diversi varchi dove vengono controllati prima i bagagli e poi il passaporto. Si riparte dopo circa mezz’ora, e in cabina siamo sempre in cinque. Il ragazzo cinese che conosce un pò l’inglese ha iniziato a fare un pò da interprete e così so che la ragazza sta tornando a casa dopo essere stata anche lei a Pechino. Dalla tasca tira fuori una foto che la ritrae in piazza Tienanmen e la mostra dapprima ai cinesi, che accondiscendenti sembrano accantonare anche quell’aria un po’ ritrosa riservata finora alla ragazza di Hanoi. Il treno sta per fermarsi di nuovo. Sono circa le due e stiamo arrivando alla stazione di Dong Dang, la frontiera vietnamita. La ragazza si avvia nella sua cabina a prendere le sue cose, e lascia nella nostra la busta con i litchi e volutamente anche la foto. Scendiamo tutti nuovamente dal treno con i bagagli e ci avviamo verso la sala della stazione dove la polizia di frontiera controllerà prima i passaporti e a campione qualche bagaglio. C’è un grande quadro di Ho Chi Minh proprio sopra uno dei due sportelli dell’ufficio immigrazione e panche in legno nella sala. All’ingresso un’anziana signora ha un banchetto dove vende bibite e cambia le monete. Improvviso si sente lo scatto del contatore della luce che salta, e per quindici minuti si resta tutti al buio. Nessuno sembra stupirsi più di tanto, e tutti aspettano pazienti che l’illuminazione ritorni. Dopo circa un’ora si risale sul treno, che riparte. Non ci saranno più soste e da questo momento nelle cabine non c’è più una lucetta accesa. Mi sveglio che non sono ancora le cinque e il fischio del treno che passa lungo le case che appaiono sempre più numerose annuncia che l’arrivo è vicino. Nella cabina gli altri ancora dormono, e per qualche minuto mi godo nel silenzio il rassicurante e lento avanzare del treno, tra lampadine che man mano si accendono nelle abitazioni che costeggiano i binari, e contadini già al lavoro nei campi.
Sono le 5.30 e il treno si ferma alla stazione Gia Lâm. Siamo arrivati ad Hanoi si scende, dice l’addetto del treno che bussa ad ogni cabina. Anche i tre ragazzi cinesi si svegliano e in fretta aggiustano ogni cosa nella propria valigia. Poi mi salutano e si avviano verso l’uscita. Ho ancora qualche minuto per sistemare la mia di valigia, e quando anch’io sto per lasciare la cabina mi accorgo che la foto e la busta coi litchi sono ancora lì sul tavolino. Mi affretto a raccogliere tutto e raggiungo la cabina della ragazza. Quando arrivo è già vuota. Sono scesi tutti. Scendo anch’io dal treno e di fretta raggiungo la stazione per cercarla e restituirgli almeno la foto. Non la vedo. Cerco ancora, ma non c’è. “Bienvenue à Hanoi”, è la scritta in francese che una volta sul taxi leggo sul retro bianco della foto, con la ragazza di Hanoi in posa in piazza Tienanmen.
Francesco Parrella