Testo e foto di Silvia Landi
Non in tutta la Tanzania l’acqua è reperibile, nella zona più centrale ad esempio, quella della capitale, sono tanti i progetti di ong e associazioni che si occupano di pozzi e falde acquifere. Negli altipiani del sud l’acqua non manca invece, la stagione delle piogge non ha un periodo definito per manifestarsi, la prima pioggia ricordo di averla vista a novembre, dopo un paio di mesi dal mio arrivo, ed ancora oggi a fine aprile le giornate piovose sono frequenti.
L’acqua arriva dai fiumi della zona, fino ad enormi tank di cemento che raccolgono e redistribuiscono ai villaggi. La gestione del sistema idrico, non sempre del tutto sicuro, non è statale né particolarmente regolamentata, dipende fondamentalmente da chi ha la possibilità economica di accollarsi le spese.
La distribuzione ai nostri occhi potrebbe essere considerata sommaria, visto che non in tutte le case, i negozietti dove si cucina, o le scuole ci sono rubinetti e lavandini. Ma avere l’acqua, non vuol dire avere l’acqua corrente.
La struttura tipica di una casa tanzaniana è composta da un piccolo locale dove si cucina a carbone, ed un altro paio di stanze dove si dorme, il numero varia a seconda della condizione socio-economica della famiglia. Il bagno è esterno all’ambiente abitativo, non è igienico averlo all’interno delle mura domestiche.
L’immagine stereotipata della donna, o dei ragazzini che presto al mattino camminano lungo la strada o attraverso i campi con un secchio in capo carico d’acqua, non è poi così stereotipata alla fine. Per avere l’acqua in casa, ammesso che ci sia, raramente è sufficiente aprire il rubinetto.
Così il viaggio inizia presto al mattino, prima ancora che i bambini vadano a scuola, prima ancora della colazione, perché nemmeno l’acqua per il the c’è, prima ancora di qualsiasi altra cosa, con un secchio da 20 litri in testa che magari diventano due se c’è un figlio o una figlia grande a sufficienza da portarne un altro.
Quanti sono 20 litri d’acqua? Sono 20 bottiglie da un litro, di cui 5 ne vanno via tra the, acqua da bollire per poter bere, e zuppa. Quanti ne perdi per lavare i piatti, di tre pasti, per quanti bambini e adulti? Di quanti ne hai bisogno per lavare i panni? Ne restano per lavare tutti?
L’accesso all’acqua dovrebbe essere un diritto universale.
Qual è il momento in cui si smette di averne cura? Quando ci si dimentica la rarità, l’importanza e l’esauribilità di questa risorsa? Quando questa risorsa fondamentale, diventa bene di consumo e soggetto ad enormi sprechi? Quando è successo che da elemento della famigerata tetrade dei naturali e per questo sacri, l’acqua è diventata incapace di rigenerarsi?
Non è forse stato quando l’uomo, grazie al “progresso”, è riuscito a dominarla ed a manipolarne la forza ai propri fini? O quel maledetto rubinetto che resta sempre aperto nelle nostre case, la doccia che scorre senza interruzione, la lavatrice sempre in funzione che rende di noi, i fortunati dotati di acqua corrente, degli infami spreconi?
É chiaro, innegabile, inviolabile il diritto all’acqua. Tutte e tutti dovrebbero poterci avere accesso, ma accessibile dovrebbe essere sinonimo di sprecabile?
Guardandosi intorno, in terra africana, con gli occhi di chi ha vissuto la maggior parte della propria vita nel cosiddetto mondo “civilizzato, avanzato, progredito”, non è troppo complicato scoprire gli obbrobri di un progresso “importato”. Ha una matrice occidentalissima e invadente, è un progresso, se proprio così lo vogliamo definire, opprimente, che intende fare di tutto il mondo un mercato globalizzato e clonabile, nel quale tutti gli uomini siano consumatori accaniti, compratori di desideri indotti e solo poi dei prodotti di essi.
Dar es Salaam conta ufficialmente più di 5 milioni di abitanti (probabilmente sono il doppio), le automobili sono incredibilmente tante, i mezzi cittadini infinitamente numerosi (autobus, moto taxi, ape taxi, auto taxi), le strade asfaltate pochissime. Quasi tutti i tanzaniani possiedono almeno un cellulare, anche chi abita fuori dalla città, anche chi, nelle zone rurali davvero raramente ha il minimo di rete sufficiente per fare una chiamata, ma soprattutto un cellulare ce l’ha anche chi non ha modo di ricaricarlo. La corrente elettrica stabile e sicura è ancora un’idea ben lontana dal servizio che garantisce Tanesco in Tanzania, e soprattutto non è ancora alla portata di tutti.
La Tanzania è uno dei paesi più sviluppati e ricchi dell’Africa Orientale, ma i tanzaniani stanno costruendo un paese come il nostro o come lo vorrebbero loro, stanno immaginando il loro futuro liberamente o come noi vorremmo che fosse?
L’acqua corrente nelle case è un bel risparmio di tempo, voi direte, e sicuramente lo è, potrebbe forse garantire il diritto allo studio alle bambine? Ma aprire il rubinetto sta nel nostro concetto di progresso, ovvero quello in cui il tempo è denaro, in cui anche il millesimo di secondo ha un valore e può essere monetarizzato. E noi, dall’alto del nostro avanzato progresso, cosa ci abbiamo guadagnato davvero? Una progressiva sedentarizzazione delle posizioni lavorative, altissimi livelli di stress e burn out, cibo spazzatura e percentuali crescenti di patologie croniche e degenerative legate a stili di vita ed alimentazione scorrette.
Riteniamo ancora che il nostro bell’occidente sia più avanzato, il nostro punto di vista sia il migliore, le nostre vite siano più felici perché più lunghe? Sono i gesti più semplici ed immediati a semplificarci la vita, a ridurci il tempo perso ed a renderci la parte del mondo già sviluppata? Ma è davvero col franchising del rubinetto o di tutti i nostri pacchetti benessere e comfort che pensiamo di rendere il resto del mondo migliore?