Testo e foto di Carlo Midollini (Foto Club Il Cupolone – Firenze)
Sono le 7 del mattino. Nel nostro vagone/albergo la temperatura è stata eccessiva tutta la notte. Esco. Finalmente una folata di aria fresca.
Strano questo inverno nei Carpazi, non c’è neve, nemmeno sulle cime delle montagne. Dove sono le temperature sottozero (-15°) tipiche di questi luoghi?
Intorno a me si apre uno scenario da primi anni del Novecento. Forse il nostro vagone in realtà è una macchina del tempo che nella notte ci ha trasportato un secolo indietro.
Su un lato dello scalo ferroviario vedo cataste di tronchi ultracentenari, a perdita d’occhio. Mi chiedo quanto potranno andare avanti a tagliare alberi prima di estinguere tutta la foresta ?
Il cielo è di un grigio intenso, se alzo un braccio lo posso toccare. Tutto il paesaggio intorno è tinto di grigio e nero. In lontananza degli edifici si intravede qualche flebile luce, intorno a me vedo solo binari e vagoni di legno. Uno sfondo degno di un set cinematografico.
“Viseu de sus”, che luogo è mai questo, dove sono capitato?
Con gli altri compagni d’avventura mi avvio verso i fabbricati. Entriamo nel primo edificio, dove si trovano gli spogliatoi degli operai. Le loro facce sono assonnate, i tratti dei loro volti mi confermano che sto vivendo un sogno.
Un saluto, un sorriso e si rimettono al lavoro.
Il fabbro, fra scintille e scoppiettii della legna, avvia il focolare della fucina. Dopo pochi minuti inizia a percuotere il primo pezzo di ferro incandescente con un martello da 5 chili. La sua rubiconda possenza completa la scena.
Altri operai sono fuori con le saldatrici a riparare i danni subiti dai piccoli carri-vagone su cui appoggiano i tronchi trasportati a valle mentre le scintille ed i lampi illuminano tutto intorno un’alba che ancora stenta ad affacciarsi.
Più avanti troviamo il rimessaggio delle locomotive con quattro belle macchine a vapore .
La nostra locomotiva è già fuori che aspetta, nera, lucida, con un elegante filetto bianco intorno ai cassoni laterali. Dal camino esce lentamente del fumo che continua ad ingrigire quel cielo già cupo e denso. Qua e là tubi e perdite scaricano vapore, contribuendo a renderla viva. Non è molto grande, ma è decisamente “bella”.
Arriva il macchinista che infagottato nella sua tuta indossa il più classico dei berretti da ferroviere. Salta sulla locomotiva e pochi istanti dopo, nel silenzio, densi e bianchissimi sbuffi di vapore escono dai cilindri e la locomotiva inizia a muoversi.
Qualche manovra sugli scambi dei binari morti ed i ferrovieri, con gesti rapidi e sicuri, agganciano i vagoni.
Uno dei vagoni è realizzato completamente in legno,compresi i telai dei finestrini. Al centro una stufa a legna sparge calore con un bel gioco di luce arancione. Un altro vagone assomiglia ad una terrazza coperta da un tetto metallico. Sul pianale vi sono panchine di legno ed una ringhiera in ferro che corre su tutto il perimetro esterno.
In carrozza …..
Sferragliando passiamo fra le ultime case del villaggio. Come in tutte le ferrovie al mondo dai binari si intravede il retro degli edifici, che se vogliamo sono la parte più vera delle case. Ecco dei panni tesi, ora giocattoli dei bambini sparsi su di un prato, adesso i rimessaggi di attrezzi agricoli.
La velocità è poco sostenuta e ci dà il tempo di scambiare saluti e parole con le persone che incrociamo sulla stradella sterrata che passa due metri dai binari,
Vediamo un carro con le ruote gommate tirato da due bei cavalli bai con dei pennacchi rossi attaccati alle cavezze.
I binari evocano ricordi di incidenti ferroviari. Non troviamo un metro di binario che sia alla stessa altezza e alla stessa distanza dalla sua controparte e non ci sorprendiamo di vedere cartelli che indicano rischio di deragliamento!
Ora la valle è stretta, il fiume si è sostituito alla strada, alcuni trattori trascinano con delle catene i tronchi che galleggiano nella corrente.
La sede della ferrovia si allarga, adesso ci sono due binari. Ci fermiamo. Un treno carico di tronchi sta arrivando, è in discesa e dobbiamo dargli la precedenza, poi rallenta, si ferma. I ferrovieri si salutano e si scambiano notizie.
Abbiano portato con noi delle foto scattate su questo stesso treno da un nostro amico 25 anni fa. Decidiamo che è il momento di consegnarle, ci avviciniamo al macchinista e lo preghiamo di vedere se riconosce qualcuno. Si avvicinano altri ferrovieri, guardano, discutono fra loro, indicano le persone sulle foto, le espressioni sui loro volti, ora sono sorridenti, ora s’incupiscono, ci dicono che qualcuno se ne andato, qualcuno è in pensione, qualcuno è morto.
Le foto vengono distribuite fra i presenti e viaggiano di mano in mano per poter essere poi consegnate alle persone ritratte o ai loro parenti.
I treni ripartono ed è una emozione vedere, sui vagoncini carichi di tronchi, i ferrovieri guardare le foto tenute strette fra le mani, immagini che testimoniano lo scorrere del tempo, in un angolo immutevole del mondo.
Mocanita, questo è il tuo nome zingaresco, metafora di viaggio nel tempo, voglio sedermi ancora sulle panche dei tuoi vagoni, quando, neve e ghiaccio mi racconteranno un paesaggio ed una emozione nuova.