di Giovanni Mereghetti
Per la nostra cattiva abitudine di dare tutto per scontato, spesso non ci rendiamo conto, oppure non vogliamo pensare, all’origine delle cose…
Succede perciò, che quando rivolgiamo i nostri desiderosi palati ad aromatici salumi, la nostra moderna e atrofizzata mente pensi meccanicamente che queste delizie giungano a noi da super automatizzate fabbriche o che siano derivati di complesse sintesi chimiche.
Anche se ciò ha, in parte, basi veritiere, non dobbiamo scordare che il capostipite, l’essere supremo dei salumi, è il maiale.
Il maiale: di colpo il solito meccanismo cerebrale ci porta ad accompagnare la parola a un ghigno… perchè?
Esso meriterebbe, forse, un po’ più di considerazione visto che dai tempi più remoti è sempre stato una presenza importante e preziosa nelle culture contadine di ogni tempo e di ogni popolo.
Pur se oggetto di scherno e simbolo di ogni bruttura (anche interiore), sin dai tempi biblici, il maiale, col suo carico alimentare ha soddisfatto generazioni di villici che lo hanno portato, con sapienza e cura, all’ingrasso per ottenere i prodotti migliori.
Ci è magari difficile staccarci dall’immagine del maiale che entra su di un nastro trasportatore in una fabbrica ultramoderna e ne esca poi sottoforma di prosciutti, pancette e scatolette. Ma se nel nostro girovagare capitiamo in una piccola azienda agricola, possibilmente a conduzione familiare, potrebbe anche presentarsi a noi una situazione diversa da quella che siamo abituati a immaginare.
Non grandi tecnologie, non personale superspecializzato in camici bianchi, ma semplicemente gente che si è riunita per un “gesto”, l’uccisione del maiale, che nella civiltà contadina assume il valore di un rito, al pari della raccolta del frumento o della vendemmia: è un avvenimento solenne che ha qualcosa di religioso. Rientra, è vero, nella legge dell’economia chiusa di una famiglia, cioè nella disciplina morale, basata sulla frugalità e sulla dedizione al lavoro, che regola la vita di una casa nel giro delle stagioni: ma è anche occasione di riunioni liete con parenti e vicini, intorno alla tavola o accanto al fuoco, che segnano di pause “festive” l’andamento faticoso dell’anno.
Ed ecco queste persone pronte per il “rito”, che accompagnano l’animale sul luogo in cui deve essere abbattuto. La bestia non pone grosse difficoltà, forse convinta di ricevere un’ulteriore razione di semola o di chissà quale miscuglio preparato con decennale esperienza per ottenere un migliore ingrasso. Qualcuno si allontana per non vedere, ma gli ultimi grugniti portano comunque un po’ di compassione.
I grugniti si spengono quasi subito e gli uomini si fanno attorno al maiale steso sull’aia e rimangono, per qualche attimo, in silenzio a guardarlo, quasi ad implorare perdono per il gesto appena compiuto. D’improvviso questo silenzio si rompe e nel giro di pochi secondi ferve di nuovo l’attività.
L’animale viene appeso per farne colare il sangue, niente deve essere perso. Mentre gli uomini cominciano a calcolare e a scommettere sulla quantità di carne che ne trarranno, poi, con un trattore lo si deposita su un tavolo di lavoro. Ognuno sa quel che deve fare, ognuno ha il suo compito e lo esegue metodicamente come da sempre, secondo i dettami della pratica e della tradizione.
Eccone uno, infatti, che gli getta l’acqua bollente, gli altri, in posizione, che raschiano il pelo. La pelle del maiale diventa rosea e fumante. Viene riappeso.
Poi un taglio e l’animale viene svuotato di ogni suo interno; si passa alla selezione delle carni con la cura e l’attenzione di chi sa come muoversi per ottenere il massimo in ogni frangente.
Anche le interiora trovano la loro collocazione, lavate, essiccate e controllate minuziosamente, serviranno poi per insaccare. La testa del maiale, ripulita dal cervello, che è una grande prelibatezza, non perde una sua certa espressività.
Viene acceso il fuoco su cui si pone una griglia per cucinare la lonza. Una donna, quasi furtivamente, si appropria di alcuni pezzi di carne da conservare per l’indomani, ricordando a sè e agli altri che non sono poi così lontani i tempi in cui “il giorno dei salami” era una delle poche occasioni di mangiare carne: una festa.
Il lavoro non è certo terminato, ora c’è chi sta macinando la carne e chi sta miscelando aggiungendovi marsala, spezie e altri ingredienti “segreti” per dare più gusto ai salami. Il personaggio che miscela ne mostra solo alcuni raccontando agli altri le fonti da cui ha ottenuto queste esclusive ricette e facendosi ripromettere, come tutti gli anni, di non rivelarle ad altri.
Mostrando capacità ed esperienza, le mani dell’uomo insaccano e legano finchè pancette e salami prendono forma per essere poi appesi, o meglio “esposti”, in un apposito locale. E’ questo il momento della soddisfazione. Si rimane lì, a contarli e ad ammirarli… e poi a contarli ancora, girandoli e rigirandoli perchè abbiano la posizione più adatta e possano, nel giro di qualche settimana, raggiungere la giusta stagionatura.
Non resta che ripulire un po’ intorno, mentre la lonza, sul fuoco, è ormai pronta per essere consumata.
Il sole sta tramontando segnando la fine di un lavoro iniziato all’alba, come è da sempre per il contadino e come vogliono le tradizioni.
Tradizioni germogliate tra i campi e cresciute davanti al focolare, o recitando il rosario nella stalla, il locale più caldo; quando le soddisfazioni erano date dai canti che accompagnavano il raccolto, dalle feste nel pigiare l’uva, dai semplici pasti a base di polenta a cui si univa il lardo, che veniva sciolto lentamente in bocca per gustarne più a lungo il sapore. Quando l’invidia non era invidia, ma confronto. Magari per il maiale più grasso.
[ATTENZIONE LE IMMAGINI CHE SEGUONO POTRBBERO URTARE LA VOSTRA SENSIBILITA’]
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