[frame src=”https://www.erodoto108.com/wp-content/uploads/2012/06/Passaggio-a-Varanasi-01.jpg” width=”273″ height=”auto” lightbox=”on” title=”Kumar | Passaggio a Varanasi” align=”left” ]
Kumar è un indiano esile, nella vita fa un sacco di lavori, ma quello che gli piace di più è la guida turistica. Ci guida, scalzo, calpestando sterco di vacca, acqua di pioggia e rifiuti alimentari, per le strette di vie di Varanasi. Si percepisce una punta di orgoglio tra le sue parole quando ci spiega il significato del nome della sua città (che nasce dai nomi dei due fiumi che la attraversano) e come questo sia tornato quello di una volta, sostituendo Benares, come la chiamavano gli inglesi durante la colonizzazione.
I vicoli della città vecchia di Varanasi, quelli vicini al fiume, sono stretti, ma quando il sole d’agosto riesce a filtrare tra i tetti il caldo diventa insopportabile. L’umidità è altissima e l’odore è quello dell’India descritta da Pasolini. Anche lui quando visitò questa città ne rimase profondamente colpito, anche lui, come noi, avvertì che qui vive ancora la vecchia India induista che sopravvive ancora, nonostante tutto.
Arriviamo con Kumar in riva al fiume, sul ghat Manikarnika, uno dei più antichi e sacri della città. Prima ci aveva portato nel negozio dove lavora sua moglie, il boss ci aveva mostrato manufatti della famosa seta di Varanasi, ci aveva spiegato le tecniche di fabbricazione, aveva provato a venderci copriletto a dei prezzi assurdi, più di quanto li avremmo pagati in Italia, poi era sceso ridendo e scherzando a meno della metà. Chiamava tutti “boss”, diceva sempre “last price” ma non era mai vero, e in quelle stanze respiravi, come in tutta l’India, un’aria di intimità, di accoglienza, che è difficile descrivere o incontrare dalle nostre parti.
Sul ghat Manikarnika Kumar ci mostra, con la calma e il distacco con cui si descrivono le ovvietà, il rito della cremazione. Vediamo mucchi di legna, e i cadaveri avvolti in stoffe colorate. Il colore prevalente è l’arancione. I cadaveri li avevamo già incrociati per le strade della città, trasportati su delle barelle di legno dai parenti che, recitando un mantra, accompagnavano il defunto sulle rive per la cremazione, mischiandosi ai pochi turisti e ai numerosi pellegrini, anche loro vestiti di arancione, giunti in città per rendere omaggio a Shiva, il dio della distruzione. Perché Varanasi è la città di Shiva, qui si viene a morire, per rinascere fuori dal ciclo delle reincarnazioni. Gli induisti credono che morire in questa città, farsi cremare e spargere le proprie ceneri nel fiume Gange, liberi l’anima dall’eterno ritorno, donando felicità eterna. La filosofia di vita dell’induismo, ma in generale di tutte le filosofie o religioni pan-indiane (lo yoga, il buddismo, il tantrismo, etc…), ha come punto centrale il concetto che l’anima vive nella completa ignoranza di se stessa. Per questo la vita è dolore, per questo l’uomo deve aspirare alla sua morte e alla rinascita come spirito puro, come perfetto conoscitore di se stesso e del Mondo. Tutto nella vita dell’indiano ha questa funzione: dai mantra, ai pellegrinaggi, dal terzo occhio, alle offerte sacrificali, dalle collane di fiori appese sui finestrini delle auto, alle fastidiose caste sociali. La religione in India viene vissuta nel quotidiano. E Varanasi è la città sacra per eccellenza: passeggiare per le sue strette vie è come assistere ad una messa.
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Kumar ci spiega che i corpi vengono arsi in media per un paio d’ore, dopodiché gli ossi più grossi che non riescono a bruciare completamente vengono raccolti e gettati nel fiume. Successivamente si passa al setaccio la cenere, per ritrovare anelli e gioielli del defunto che verranno conservati dai parenti. Alla fine si affidano alla Madre Gange le ceneri rimaste per terra. Non tutti vengono bruciati: i guru ed i santi che hanno raggiunto in terra la liberazione vengono gettati direttamente nel fiume senza bruciare, perché le loro anime sono già uscite dal ciclo delle reincarnazioni, lo stesso avviene per i bambini, le donne incinte e gli animali sacri, come il serpente e le vacche.
Risaliamo il fiume insieme a Kumar con ancora indosso l’odore acre dei corpi bruciati, la sensazione di aver assistito a qualcosa di veramente sacro ci seguirà tra i vicoli fino al main ghat, quello più grande e centrale, dove ci aspetta la puja serale, un atto di venerazione condotto da bramini, che tutte le sere viene riproposta ai numerosi pellegrini giunti in città. Nel tragitto incrociamo i soliti mendicanti e gli oramai familiari negozianti pronti a intrattenerci con l’arte del contratto appena varchiamo l’uscio del loro negozio.
Un bambino ci saluta e noi gli chiediamo cosa faccia di bello nella vita: studia in un ashram, impara lo yoga, la via per l’unione dell’anima con il corpo. La città è piena di scuole di yoga, pubblicità di corsi di yoga sono appese dappertutto.
Arriviamo al main ghat qualche minuto prima della cerimonia, ci avanza tempo per passeggiare senza meta lungo la riva del fiume sacro ed assistere alle ultime abluzioni prima del calar del sole. Anche queste ci spiega Kumar servono a purificare l’anima dai residui karmici negativi ed avvicinarla alla liberazione. La gente si immerge nel Gange e lascia come offerta collane di fiori o lumini, affidandoli alla corrente che li trascina via insieme all’inquinamento ed ai cadaveri di uomini e animali.
Alla puja assistono come tutte le sere centinaia e centinaia di pellegrini. Alla fine un canto e la fiamma vengono offerti al fiume sacro. A noi, solamente spettatori, la gioia di essere stati presenti.
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C’è ancora il tempo di una cena con Kumar, vegetariana e senza alcool, i racconti sulla sua famiglia sono quelli della maggioranza degli indiani. Povera gente che vive alla giornata, che si improvvisa guida turistica, che ha vissuto o vive ancora nelle tende sulle strade polverose. Storie di uomini che lasciano la famiglia per andare in città e affittare un tuc-tuc dal boss locale, o comprarsi un risciò, e quando gli avanza qualcosa dopo essersi sfamato e aver dormito sul marciapiede mandare un po’ soldi a casa, così magari il figlio potrà studiare, potrà diventare un attore di Bollywood, o lavorare in un ufficio di una qualche città. Storie di donne che lavorano nei campi, piegate con i loro splendidi sari colorati. Storie di pellegrini, scalzi, con la bandiera, che camminano per chilometri portandosi dietro il peso della loro cultura e delle loro credenze che alla fine doneranno loro un riscatto. Storie diverse dalle nostre, perché l’India è un mondo a sé, gli indiani sono un popolo a sé, noi qui possiamo solo fare i turisti. Perché per essere indiano devi nascerci in India, devi imparare da bambino tutti i riti e le usanze, tutti i significati, gli odori, i colori, il peso delle lente giornate.
Noi possiamo soltanto passare in mezzo a loro, facendo una bellissima esperienza di un mondo a parte.E come tutti i turisti lasceremo Varanasi, sicuri che se un giorno passeremo di nuovo da queste parti la ritroveremo più o meno la stessa, così accogliente, così intima, così carica di significati, come lo è rimasta per migliaia e migliaia di anni.
Namaste Madre Gange.
Namaste Varanasi.
Foto e Testo di Yuri Materassi | www.yurimaterassi.it