Testo e foto di Francesco Parrella /
Tra Lian e Yuxin ci sono due generazioni a confronto. Lui vive in un hutong da quando è nato e l’idea di andare a vivere in un condominio con le scale in marmo e le finestre una uguale all’altra non lo sfiora nemmeno. «Un mio amico aspetta l’ascensore anche dieci minuti prima di rientrare a casa», dice Lian sollevando d’un colpo le sopracciglia. Anche Yuxin ha sempre vissuto nell’hutong, ma a differenza del padre l’idea di cambiare casa non le dispiace affatto. «La maggior parte delle mie colleghe universitarie abita in un condominio. Quando vado a casa della mia amica Mei che abita al diciottesimo piano c’è una vista bellissima dal suo balcone. Chissà – dice cercando una timida complicità nello sguardo del genitore – anch’io tra qualche anno me ne andrò a vivere in un’altra casa e guarderò dall’alto la città». Nel frattempo Yuxin la città continua a guardarla dal basso. La sua casa di un piano è sul lato nord di un quadrilatero di abitazioni (siheyuan) tutte della stessa altezza con un cortile chiuso dai quattro lati di mattoni grigi e al centro un bell’albero ornamentale di cui si curano le famiglie di questo condominio orizzontale.
Divide il soppalco con la sorella, mentre giù oltre alla cucina a legna che in inverno fa anche da stufa, c’è un ripostiglio zeppo di utensili e la camera dei suoi genitori. C’è anche il bagno che Lian ha costruito dieci anni prima sottraendo un pò di spazio al cortile. E la stessa cosa hanno fatto anche i suoi vicini. Non tutte le abitazioni ce l’hanno, e in tanti usano le latrine pubbliche collocate a circa cinquecento metri di distanza una dall’altra lungo la strada esterna al cortile. Lian ci tiene a mostrare alcune galline sistemate in un box pertinente alla casa, («fanno le uova più buone di Pechino», sorride), ma è soprattutto orgoglioso del canarino che tiene in una gabbia appesa dietro la porta col quale sembra essere in sintonia più di tutti.
Lasciando il cortile si passa sotto un piccolo portico alto poco più di due metri. Sulla sinistra sono poggiate alcune biciclette messe lì da chi è tornato già a casa. La porta sulle mura perimetrali della siheyuan che dà sulla via, generalmente di colore rosso, si chiude dall’interno soprattutto d’inverno, più raramente d’estate quando si va a letto più tardi e ci si alza più presto. Negli hutong (pare che questa parola derivi dal mongolo ‘huto’, pozzo, in quanto la loro costruzione seguiva la distribuzione dei pozzi) non tutte le case hanno un cortile; molte abitazioni hanno un accesso diretto dalla strada, e alcune versano ancora in uno stato fatiscente. Molti di questi antichi manufatti sono andati giù nei primi anni ’90 o negli anni appena precedenti le Olimpiadi del 2008. In alcuni casi sono scomparsi interi hutong, per far posto ad abitazioni nuove in cemento. Poi il crescente interesse turistico per questi antichi insediamenti urbani, dove il contrasto tra la metropoli moderna e la Pechino di un tempo si tocca con mano, ha frenato anche speculazione edilizia, ora orientata in questi casi piuttosto alla ristrutturazione dell’esistente. Ne sono un esempio gli hutong di Dashilar, a sud della piazza Tiananmen, nel quartiere Qianmen dove in età imperiale abitavano le famiglie più facoltose che potevano permettersi una residenza appena fuori le mura della Città Proibita. Oggi la maggior di queste di queste case è stata ristrutturata e non si contano i negozi di souvenir o i ristoranti con le vie sempre affollate di turisti. Qualche chilometro più nord, in prossimità del Lama Temple, tra i vicoli degli hutong di Nanluoguxiang, nel primo pomeriggio soprattutto, c’è un silenzio che fa dimenticare il caos del traffico esterno. Qualche auto pure passa, a volte con qualche difficoltà per via delle stradine così strette. Ma qui ci si sposta per lo più su biciclette, o motorini elettrici più silenziosi delle bici.
Tra queste viuzze si vedono anziani che il pomeriggio lo passano a chiacchierare nei vicoli seduti sulle sedie che hanno tirato fuori da dentro casa. Un venditore ambulante sulla cinquantina ha montato sulla sua bici una originale cucina a legna con cui cuoce in alcuni tiretti cilindrici di metallo mele e altri frutti. Su un muro c’è ancora un’antica scritta «viva la rivoluzione» con affianco dipinta una bandiera rossa. Girando l’angolo, alla fine di un vicolo cieco quattro donne giocano a poker, e poco lontano altre signore sembrano immerse in un chiacchiericcio che sa tanto di pettegolezzo. Fuori ad un ristorante con le tipiche insegne verticali un gruppo di uomini gioca a yahtzee con cinque dadi, altri giocano a dama, e altri ancora osservano un pò gli uni e un pò gli altri. Passa anche qualche volontario con una fascia rossa appuntata al braccio su cui è scritto anche in inglese ‘public security’. Sbirciando all’interno di quella che sembra una vecchia bottega si vedono tre persone impegnate in esercizi di calligrafia: pare che dia equilibrio, migliori la postura e favorisca il rilassamento. Qualche metro più avanti c’è chi prova a organizzare un «concerto» facendo «cantare» alcuni grilli nelle tre gabbie appese al muro. E quasi ci riesce; poi improvviso arriva lo scampanellío di una bici che traina un grosso cassone: è l’operatore della nettezza urbana che richiama così l’attenzione perchè è l’ora di consegnare gli scarti.
Da Nanluoguxiang all’hutong del signor Lian s’impiegano circa venti minuti camminando a piedi verso est. La sera in questi vicoli l’illuminazione è ridotta al lumicino e Lian quasi non lo si riconosce seduto sotto un albero a conversare con un turista tedesco a cui elenca i nomi di alcune squadre di calcio europee chiedendo se la pronuncia sia quella giusta. Più tardi spiegherà anche il perchè è tra i pochi cinesi incontrati tra questi vicoli a conoscere qualche parola d’inglese. «Faccio il tassista e da trent’anni prendo e porto i turisti all’aeroporto» dice, prima di salire nuovamente in macchina e iniziare una nuova corsa.