Testo di Giulia Usai
Camminando nei centri abitati in Sri Lanka, tra strade principali e viuzze secondarie, si avverte un sottofondo sonoro ricorrente: ritmato, metallico, affilato. Si interrompe per pochi istanti, poi ricomincia, seguito da un crescendo cadenzato che prende il via pochi metri più in la, unendosi all’orchestra sfasata di percussioni che anima i dintorni. A dettare il tempo sono le lame taglienti dei coltelli che battono sulla piastra incandescente per preparare il kottu.
Il kottu, detto anche kottu roti, è il piatto da strada più popolare dello Sri Lanka, nonché una delle gioie culinarie più goduriose dell’intera isola: ricco, speziato, abbondante, eccessivo nell’accostamento di ingredienti calorici e proprio per questo libidinoso. È un’invenzione recente, nata negli anni Settanta a Batticaloa o Trincomalee, sulla costa est del Paese, ma diventata nel giro di pochi decenni la ricetta di punta dello street food srilankese, perché riunisce i sapori più caratteristici della cucina locale – dal curry di carne alla parotta, passando per il soffritto saporito che è la base di gran parte delle preparazioni – in un’unica pietanza.
Si prepara versando dell’olio e delle foglie di curry sulla piastra calda, da far soffriggere insieme a cipolle rosse, carote, cipollotti, aglio, zenzero, pomodori, sale e una generosa dose di spezie, tra cui peperoncini verdi, pepe e semi di mostarda. Una volta cotte le cipolle, si aggiungono l’uovo e i pezzi di parotta (una focaccia sottile molto diffusa in questa parte di Asia), e per finire, una porzione contenuta di curry di pollo o di manzo.L’aspetto più scenografico della preparazione corrisponde però all’ultima fase della cottura: il cuoco agguanta due lame simili a mannaie – che terminano in un’impugnatura di metallo avvolta a spirale, senza manico – e, abbassando prima l’una poi l’altra con scansione regolare e frenetica tagliuzza le varie parti sino a ridurle a bocconi ridotti, picchiettati da gradazioni di colori diversi e ben amalgamati. Il kottu viene servito in sacchetti di plastica o carta di giornale, che gli avventori mangiano scartando i fogli che lo contengono e afferrandone una buona dose con la mano, da gustare ancora calda.
In quel battito di lame sull’acciaio, nei polpastrelli scottati dal cibo ancora troppo caldo, nell’odore penetrante di spezie bruciacchiate e nello stomaco colmo fino all’orlo a fine pasto si condensa il ricordo culinario dei viaggiatori che sono passati per lo Sri Lanka.