Viviamo in un’epoca contraddistinta da un profondo squilibrio territoriale, dove la realtà micro-regionale, quella più familiare per intenderci, si mescola a quella più cosmopolita.

La mobilità delle persone, la digitalizzazione, i mezzi di comunicazione e i flussi migratori hanno cambiato la percezione dei confini e dei luoghi. Hanno pure cambiato la sensibilità di ognuno di noi nei confronti dell’ “altro”, che tanti definiscono “diverso.” Diverso da chi, poi?

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Non è più possibile considerare il territorio uno spazio geografico, si tratta piuttosto di una dimensione psicologica e sociale. Ed è proprio in questa dimensione che si annida la necessità estrema di conoscere chi capita nelle nostre vite, chi viene da lontano, chi entra in casa nostra, che sia in punta di piedi o sfondando la porta.

“Scatto per l’integrazione: una persona, una storia, una foto” è un progetto fotografico messo su da Maurizio Greco, fotografo, in collaborazione con il blog Se Dico Taranto il Circolo Controluce di Statte che mira, attraverso un corso, ad avvicinare alla fotografia i ragazzi immigrati provenienti dall’Africa e dall’Asia e ospiti presso il centro di prima accoglienza per minori non accompagnati a cura dell’Associazione “Noi & Voi”, parte attiva del progetto.

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Ciascun ragazzo, durante gli incontri, proverà a raccontare la propria storia, la sua personale esperienza e non solo parlerà ma fotograferà, “per non dimenticare, per non smettere di guardare”, come diceva Daniel Pennac.

L’obiettivo? Sensibilizzare quelle persone ancora troppo cieche per capire che le uniche barriere esistenti sono quelle mentali e che la diversità non è altro che ricchezza.

Infine, Alessandro Vitti illustratore per la Marvel, dedicherà al progetto una Tavola.

Ti racconto la prima giornata

Sono le 6 del pomeriggio e una delle stanze del Corpus Domini di Paolo VI inizia a popolarsi di ragazzi africani e asiatici. Alcuni paiono spaesati, altri incuriositi. Potrebbe sembrare un normale giovedì di febbraio, eppure nel momento stesso in cui metto piede in quell’aula improvvisata, accade qualcosa di straordinario. Accade che i destini di alcune persone si incrociano, nuove storie vengono raccontate e l’umanità e la gentilezza che traspare dai gesti e dagli sguardi di Omar, Hamed o Hamza – per citare solo alcuni di loro – rende ciascuno di noi migliore, più umano.

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Dopo una breve presentazione iniziale, prende il via la lezione alla scoperta delle macchine fotografiche analogiche e digitali. Ce n’è una datata addirittura 1938.

Omar, 10 anni, è il più piccolo e non passano molti minuti prima di sfoggiare doti da fotografo navigato. Mi guarda Omar, e dopo avermi puntato l’obiettivo addosso mi regala un sorriso di quelli che scioglierebbero pure i cuori più duri.

Nonostante non abbia una famiglia, quello che soprattutto alla sua età dovrebbe essere un punto di riferimento, Omar sembra sereno, i suoi occhi scuri sono incorniciati da una luce di speranza. Fa tenerezza.

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Più in là Baba, detto “il Preside” per il suo impegno costante nelle attività quotidiane e professionali, affianca Daniele Biffino, vice presidente del circolo fotografico Controluce, che illustra gli attrezzi del mestiere un po’ in italiano e un po’ in inglese per farsi comprendere meglio.

Mentre i ragazzi maneggiano un obiettivo, Lucia Scialpi – operatrice e volontaria – mi racconta che l’associazione “Noi & Voi” si occupa non solo dell’accoglienza ma anche dell’istruzione. Che quello che fanno è un’attività edificante, appagante ed emozionante. “Pensa che Hamza mi ha chiesto di essere la sua mamma. Una sera mi chiamò e mi disse: Lucia vuoi essere la mia mamma, perché la mia è bum bum.”

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Hamza e Lucia si abbracciano, sprigionando un calore e un affetto contagiosi. Nella stanza riecheggiano le risate, le urla e le battute di chi non riesce proprio a concentrarsi.
Sono le 19.30. L’incontro sta per volgere al termine ma prima di congedare gli “alunni” ci salutiamo con il tipico gesto africano: pugno sul cuore e via, a cenare.

Tornando a casa, penso ad ognuno di loro. Penso che, anche sforzandomi fino allo stremo, difficilmente potrei immaginare cosa vuol dire essere costretti ad abbandonare il proprio Paese per sfuggire alla guerra. Posso immaginare, però, che il nostro sarebbe un mondo migliore se lasciassimo andare l’idea di sentirci al centro dell’universo; che noi saremmo migliori se seppellissimo quella tendenza ad aggrapparci a pregiudizi o analisi sempliciotte di sorta.

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E se anche non ci importasse di essere migliori, dovremmo sforzarci quantomeno di scoprirci o ri-scoprirci umani, curiosi e interessati alla storia dell’ “altro”… anche soltanto per il fatto che “Dio ci ha dato un cuore non per trucidarci o odiarci, ma per amarci come fratelli.”

Nel caso in cui non volessimo scomodare Dio o chi per lui, allora pensiamo semplicemente che al posto dell’ “altro” potremmo esserci noi, un giorno, remoto, obbligati a saltare improvvisamente su un gommone dal quale potremmo non scendere più. Pensiamo allora che, a quel punto, l’unica vera fortuna sarebbe quella di inciampare in un po’ di umanità e di empatia, che ci rende liberi di fotografare la realtà da punti di vista sempre nuovi e più illuminanti.

Perché, per risolvere un conflitto sociale, per compiere il primo vero passo verso l’integrazione, basterebbe imparare ad empatizzare. Senza necessariamente simpatizzare.

 

Collaborano l’associazione A’ PUTÉJE – Arte e(è) cultura, Marika Marangella, instagramer e co-admin igers_taranto.

Le fotografie sono di Maurizio Greco.

 

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Stefania Ressa

Giornalista e Social Media addicted. Amo la mia città, Taranto, anche se a volte la prenderei a sberle. Ho l’anima di una vagabonda, mi piace viaggiare tra le storie di chi inciampa sulla mia strada e raccontarle. Irrequieta dalla nascita.