Testo di Enrico Cerrini, foto di Hua Wang
La visione dell’area di Meteora è un’esperienza che può solo suscitare emozioni positive grazie alla bellezza naturale e artistica del luogo. Nella Grecia di oggi, questi sentimenti sembrano accordarsi con la definizione stessa di Meteora, “sospeso in aria”. In passato, il luogo è stato così denominato perché consiste in una serie di monasteri ortodossi situati sulla vetta di alcune falesie, le quali creano un senso di vuoto tra la terra e il luogo spirituale, come a levarsi sopra le noie terrene. Oggi, lo stesso luogo sembra innalzarsi al cielo per evitare le due crisi che affliggono il paese ellenico.
Lungo la strada si comprendono i drammi che attraversano la Grecia moderna. Si avverte la crisi economica, causata dalle politiche lassiste dei leader greci e dall’altrettanto folle reazione europea che ha imposto al paese una medicina profondamente sbagliata e punitiva. Nell’area rurale sono i contadini a pagare lo scotto più ampio e cercano di sollevarsi bloccando l’autostrada con i loro trattori. Reagiscono per riaffermare la propria presenza, alzare la voce e incrementare il potere contrattuale durante i negoziati con il governo.
L’altro dramma è rappresentato da quella marea umana che, dalle zone di guerra, raggiunge le coste della Turchia per poi riversarsi in Grecia e dirigersi lentamente verso l’Europa del nord, novella terra promessa. Osserviamo questa fila umana mentre cammina verso est, in una direzione che pare opposta rispetto all’usuale flusso. Alla pena nel vedere questa gente che fugge da problemi spesso causati da grandi potenze senza scrupoli, si associa il senso di impotenza di chi sa bene quanto una soluzione semplice non esista. Se è ignobile e disumano fermare, respingere e negare i minimi diritti a chi fugge, è anche razionale pensare che non ci siano le risorse per sostenere tutti e che la cosa più importante sia quella di fermare la guerra. Sfortunatamente, pensare a come mettere in pratica quest’ultima ipotesi, apre interrogativi ancora più inquietanti.
Arrivati in hotel, scopriamo che lo scontro diplomatico tra Austria e Grecia ha raggiunto un nuovo picco. L’Austria, uno dei paesi che pochi mesi fa si era speso a favore dei rifugiati, ha deciso unilateralmente di filtrarne il flusso creando uno stretto collo di bottiglia alle sue frontiere. I paesi balcanici hanno agito di conseguenza, limitando lo sconfinamento dei migranti, lasciando da sola Atene e senza meta chi non riesce a varcar la frontiera. Molto probabilmente, il flusso da occidente a oriente è causato da questo fattore.
Accendendo la TV Greca, si odono parole incomprensibili che fanno da sfondo ad immagini chiarissime di profughi fermi alla frontiera, semoventi lungo la strada o appena sbarcati dal mare. Nei sottotitoli si intravedano i nomi di Lesbo, Chio e Samos, le isole dove questo fenomeno è più intenso. Isole che, malgrado attanagliate da una forte crisi economica, si mettono in gioco per assistere chi arriva dal mare, compiendo uno dei più grandi atti di generosità possibile: il riconoscimento che i problemi altrui siano più grandi dei nostri. Per questo si meritano quel Nobel per la pace tanto invocato dal regista Gianfranco Rosi, fresco vincitore del Festival di Berlino.
In questo contesto, ci rechiamo in un luogo che appare avulso dalla realtà circostante sia nel tempo che nello spazio. Da una parte, lo spettacolo della natura rende difficile la comprensione delle proporzioni dello spazio, dall’altra, lo spettacolo artistico ci fa penetrare nel mondo spirituale di cinquecento anni fa. I monasteri si presentano come distaccati dalla vita reale, profondamente immersi nella loro vita religiosa e difficilmente accessibili.
Il primo è quello di San Nicholas Anapausas, da cui si accede attraverso una ripida e lunga scalinata. Al suo interno nasconde una chiesa decorata con affreschi originali che illustrano il mondo di morte e sofferenza raffigurato dai sacerdoti ortodossi. La pena è ovunque, sia nella beatitudine dei martiri che nella punizione di infedeli e peccatori. A martiri scorticati o con la testa mozzata, si accompagnano peccatori divorati da enormi animali. Salendo ancora le scale, raggiungiamo la terrazza in cui svetta la campana del monastero, e dove si staglia impetuosa un’altra falesia più alta di quella in cui ci troviamo.
Arrivati di fronte all’entrata del monastero di Rousanou, ci accorgiamo di quanto le proporzioni possono essere ingannevoli in quel luogo magico. La lunga scalinata di poco fa e l’immensa falesia vista dalla terrazza ci appaiono come minuscole vette al cospetto di giganti. Come novelli Gulliver ci sentiamo spiazzati, come se non fossimo più consapevoli delle nostre stesse dimensioni. All’interno, una monaca silenziosa mi stacca i biglietti d’ingresso, ma appena vede entrare mia moglie, le grida qualcosa. Non capiamo, pensiamo che voglia controllare meglio il biglietto, ma non è così. Indica l’angolo destro della stanza e, dopo alcune ripetizioni, riesco a comprendere la parola “skirt”, gonna. Un ragazzo ci indica un grande cesto di vimini dove sono custodite numerose gonne lunghe, da legare ai fianchi delle donne. Solo così possono entrare nel monastero.
Esploriamo il luogo di culto fino a raggiungere la piccola chiesa, ornata ancora di cupe e tetre storie di martiri. E’ formata da due stanzine collegate tra loro, dove sorprendiamo il ragazzo di prima assorto in preghiera. Lo avevamo già notato nel primo monastero mentre sedeva ad occhi chiusi sul tetto, come assorto in meditazione, lo ritroveremo in seguito mentre fuma una sigaretta. Come era facilmente prevedibile, nel percorso possiamo incontrare più volte le stesse persone, che ci lasciano intravedere fugaci pezzi delle loro lontane vite. Quello che per noi rimarrà conosciuto come “il ragazzo con il cappotto verde” sarà indubbiamente il personaggio più religioso visto in giornata, colui che riuscirà ad assorbire a pieno sia il carattere turistico che quello spirituale del luogo.
Dall’incredibile terrazza panoramica del monastero di Varlaam possiamo godere di un ottimo panorama contornato dagli altri due luoghi di culto appena visitati. L’area, dotata di un ampio negozio di souvenir, appare più turistica rispetto a quanto visitato finora e anche gli affreschi della chiesa appaiono più moderni rispetto a quelli precedenti, mentre il tono sacro inizia lentamente a scemare. Nella terrazza notiamo il passaggio di una giovane donna, accompagnata dal suo partner. Viaggiando senza gonna e con le spalle scoperte, la ragazza risalta per la sfrontatezza con cui si rifiuta di seguire i dogmi ortodossi. Nel corso del giorno, assisteremo alla maturazione spirituale della coppia. Alcuni monasteri più tardi, la ragazza, indosserà la gonna e il ragazzo acquisterà una copia del libro che introduce alla religione ortodossa.
Di fronte al monastero di Grande Metereon si notano poche persone perché chiuso per ristrutturazione. Sebbene chiuso, Grande Metereon appare come cosa viva, collegato alla strada da una minuscola cabinovia che trasporta i restauratori e i loro attrezzi, oltre che dalla scalinata che scende nella gola per risalire sulla vetta della falesia. Quando, dopo poche ore, ritorniamo qui per fotografare il paesaggio, scorgiamo una folla di persone, ciascuna con la propria peculiare storia. Si nota una giovane famiglia americana che scavalca il primo cancello nel tentativo di avvicinarsi il più possibile al monastero; si intravede un padre giapponese sorridente nel tentativo di infondere gioia e ricordi nella figlia piccola; risalta un grosso prete ortodosso che, accompagnando un gruppo di viaggiatori, propone loro di fare una foto quando capisce la difficoltà di sanare la delusione del mancato ingresso.
Il monastero della Sacra Trinità è il più difficile da scalare, con scale scavate direttamente sulla parete rocciosa della falesia. La difficoltà iniziale val bene la vista che si staglia dall’incantevole terrazza. Questa è ben più rigogliosa delle altre, come un giardino pensile collocato su uno dei panorami più mozzafiato d’Europa.
Il monastero di Santo Stefano è indubbiamente il più deludente sotto ogni punto di vista. Le monache parlano un perfetto inglese e non badano se le visitatrici indossano o meno la gonna, gli affreschi, frutto di un moderno restauro, luccicano alla visione e appaiono decisamente meno tetri rispetto ai precedenti, i negozi di souvenir abbondano indisturbati. Sembra terminare quel senso di sospensione dalla realtà che abbiamo vissuto negli altri monasteri, si ritorna alla vita reale, dove il denaro sarà pur vile ma è necessario, specie in un momento di devastante crisi economica. Così, anche un luogo di culto deve fare la sua parte per accrescere la ricchezza di una nazione eccessivamente punita per i propri errori.
Il giorno dopo torniamo a Salonicco, dove visiteremo brevemente la città, con le sue chiese bizantine e i suoi caffè ancora popolati di gente, che reagisce con la propria vitalità alla crisi che morde. Prima di incamminarci, sintonizziamo la tv su un canale greco, dove si parla ancora dell’emergenza dei rifugiati. Appena il programma termina, la sigla finale accompagna le immagini della tragedia ad una canzone conosciuta. Il ritmo è cupo ma piacevole e vitale al tempo stesso. Dopo alcuni secondi mi accorgo che è “Ederlezi”, una musica che per un momento non potevo fare a meno di ascoltare, specie nella versione dei CSI di Giovanni Lindo Ferretti. E’ una canzone che celebra il 6 maggio, la festa di primavera serba, uno degli appuntamenti più importanti per il popolo gitano. La musica è potente, non ha bisogno di parole per associare emozioni e questa canzone connette il popolo viandante per eccellenza ai viandanti moderni, che fuggono in cerca della primavera promessa dall’opulenza europea. Ma è una primavera cupa, triste, perché l’Europa non possiede la volontà di trasformarla in qualcosa di più umano, più giusto.
Dopo pochi minuti ci mettiamo in viaggio sull’autostrada. Oggi è domenica, un giorno di festa. Non si vedono proteste, non si vedono lunghe file umane, come se tutto si fosse fermato. Fa caldo, c’è un bel sole. Potrebbe essere il 6 maggio. Ma non lo è, la primavera tarda ad arrivare.