Testo e foto di Camilla Mantegazza

La stazione degli autobus di Gerusalemme Est, da cui partono i mezzi che varcheranno il confine, si trova a cinque minuti dalla porta di Damasco. E lo scenario, in poco meno di 300 metri, cambia. Sono senza velo, direzione Ramallah. Mi sento osservata, catapultata nel vortice di un mondo così distante dal mio, intravedo il muro dei pregiudizi che ci separa. Odori, voci e grida ingombrano i miei sensi. Mi guardo intorno, non riesco a trovare nulla di familiare. Con una buona dose di invadenza inizio a raccogliere con lo sguardo tutte quelle piccole diversità che, soddisfatta, voglio portarmi a casa. Dietro al velo scorgo occhi e corpi di straordinaria bellezza. Il Mediterraneo offre scenari così diversi e io me ne accorgo solo ora. Vedo scorrere sotto mani così ben curate pagine e pagine di Facebook. È forse questo che ci accomuna?

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Attraverso con buona dose d’ansia il checkpoint che mi porta in Cisgiordania. Immediatamente si alza un muro, un muro vero: il muro salva-vita da una parte, il muro della vergogna dall’altra. Muri di cemento armato, che tagliano in due arabi, valli e uliveti. C’è chi lo chiama il muro dell’apartheid. Il muro del fallimento di tutti i tentativi – o dei non tentativi – internazionali, di trovare un accordo pacifico e diplomatico al fuoco tra palestinesi e israeliani. Cerco di scorgere il bello, vorrei cercarlo nell’indifferenza di chi quel muro non lo vede più– è troppo difficile, non riesco. Lo trovo, forse, in chi finge che un muro non esista – dobbiamo andare avanti, possiamo fare qualcosa per risolvere questa situazione? Lavoro, mando i miei figli a scuola: come voi dello stivale più bello, cosa cambia?

Betlemme

Vedo il concetto di “terra”, “nazione”, “appartenenza” come qualcosa di estremamente lontano, retorico, retaggio di un passato oramai annacquato. La percezione dello spazio si è fatta fluida, connettività transnazionale; progetto il week-end a Parigi, sogno un futuro a New York. Voglio capitalizzare le mie potenzialità, non importa dove. Cerco di cogliere le mie opportunità, cerco il mio antro nel villaggio globale. Le persone che incontro lungo le strade di Nablus, di Bethlemme, di Jenin, di Ramallah la vedono diversamente, sembrano non capire questa mia esigenza. Incontro il muro tra il nostro costante desiderio di fuga e la loro decisa scelta di permanenza. Cambiano gli aggetti possessivi. Il “mio” che si fa “nostro”. L’idea che, nonostante le difficoltà, sia doveroso rimanere e lottare per il futuro della propria causa, della propria gente. Anche chi potrebbe scappare, chi avrebbe risorse per scappare, chi avrebbe diritto di scappare, sceglie consapevolmente di non farlo. Nel nome della terra. Nel nome di quella terra che hanno strappato con i fucili ai padri, ai nonni. Nel nome di quella terra che sognano un giorno di recuperare. Per noi è follia, per altri è dignità.

Vivo nelle Grandi Città. Non conosco i miei vicini, non saluto i miei vicini. Non saprei dire come abbiano arredato il proprio salotto, non immagino cosa facciano nella vita. Diffidenza. Indifferenza. Nablus ci accoglie come fossimo figli suoi; camminiamo per le sue strade come fossimo astronauti sbarcati dalla luna. How are you, what’s your name? Italia, oh italiani! Ci offrono del tè, ci offrono del caffè – parecchio tè, parecchio caffè. Ospitalità che mette a rischio le coronarie. Parlo con le persone. Parliamo con le persone! Sconosciuti che ci accolgono nelle loro case, si scusano per il disordine, ci accompagnano su terrazze, ci accompagnano su minareti, ci accompagnano in fabbriche. Ci regalano il loro tempo, la loro compagnia, la loro conoscenza, in cambio di sorrisi inebetiti e stupore sincero. C’è un grosso muro anche qui, tra chi costruisce muri e chi tenta di abbatterli, pur vivendone all’ombra.

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Penso alle colonie. Reminiscenze della storia liceale, di Etiopia ed Eritrea. Ricordi di vacanze estive in cui facevo l’animatore. Qui “colonia” significa violazione. Di confini, di leggi, di trattati. Significa “ingiustizia”. Verso le persone, verso la terra. Significa “occupazione”, significa giustificare nel nome di un Altro il perpetrare di viscerale crudeltà. Osservo Hebron, osservo la sua città storica incatenata. Osservo i sobborghi di Bethlemme, contornati da casupole con i tetti rossi. Osservo come cambia lo scenario in pochi metri, osservo il muro tra un povertà reale ed un benessere costruito, tra le persone ed i governi, tra la sconfitta e la prepotenza. Tra chi è costretto a vivere senz’acqua corrente, perché gli viene sottratta da chi deve irrigare i propri campi. Non c’è bisogno di cemento per suddividere due universi, per creare due mondi paralleli in un alito di terreno. Mi scontro con il muro che divide chi ha il diritto di abitare, e chi si arroga quello di occupare.

Faccio linguacce ai bambini. Loro ridono, io mi diverto. Dove sono i muri?