Diego Leandro Genna

Il piazzale è pieno di auto, bus e minibus. C’è un’aria d’effervescente entusiasmo turistico. Io e Wije parcheggiamo la moto e scendiamo guardandoci intorno, un po’ intontiti dal lungo tragitto. Chilometri e chilometri di salita, una strada che s’inerpica tra ammirevoli giungle che diventano boschi maculati di piantagioni di tè, intrichi d’arbusti, terrazzamenti d’ortaggi e argentee cascate come ferite nella roccia scura. Tornanti e curve a mai finire. La “Hill Country”, le colline del tè, il famoso Ceylon tea. Proprio colline non si direbbero giacché siamo a un’altitudine di circa duemila metri, ma forse è per la morbidezza di tali paesaggi che ci si ostina a chiamare così questa parte dello Sri Lanka. Hill Country. Paffute alture, ricoperte da un reticolo di piantagioni di tè come tanti batuffoli verdi. Rilievi tempestati da ogni sorta di albero o pianta, puntellati qua e là di bruni macigni indolenti. Coltivazioni di tè a perdita d’occhio.

Wije ha già trovato una guida che ci accompagnerà nella visita gratuita della tea factory. Con noi ci sono altri due giovani turisti (bianchi), non saprei dire di che nazionalità (inglesi?), con cui le uniche parole che scambio sono “hi guys”, loro rispondono con uno smorzato “hello” e ci incamminiamo verso un edificio rivestito di lamiera bianca e verde, su più livelli, lineare come le chiese dei villaggi sperduti. Austera essenzialità coloniale, sia essa di natura economica o spirituale. Saliamo al primo piano, un odore caldo ci ingloba, la guida è singalese, lo sguardo furbo di chi è abituato a trattare con i turisti, è indisponente, cerca di essere simpatico ma non lo è, sa che sta perdendo tempo con noi quattro, poteva capitargli quel gruppo di giapponesi appena scesi dal bus o una facoltosa famiglia di Singapore. Tiene in mano un virgulto della pianta del tè, ci dice che si raccoglie solo questo germoglio delle foglie (al massimo cinque) e che si fa settimanalmente; ci dice che è la stessa pianta da cui si producono i vari tipi di tè, verde, nero, bianco o argentato che sia, si tratta solo di lavorazioni diverse; ci dice che da cinque chilogrammi raccolti si ottiene un solo chilo di tè. L’ambiente è spoglio, scuro, solo alcune macchine strette e lunghe su cui sono ammassate le foglie di tè. C’è una sorta di mormorio tiepido, continuo e indistinto. Macchine che sussurrano aria calda e non ci permettono di cogliere le parole della guida, che parla un buon inglese ma troppo spedito, e non la smette di far oscillare fastidiosamente quel germoglio di tè fra le mani. I lavoratori non si notano nemmeno, figure indistinte, intraviste in lontananza, in una profonda oscurità triste e smemorata. In questa sala enorme e semibuia avviene la prima fase del processo di lavorazione, la seccatura (withering). La guida ha semplicemente omesso la fase di raccolta (plucking) e di trasporto alla fabbrica. C’è un tiepido odore di frantoio e la vista di tale ammasso di foglie mi fa pensare, con un pizzico di nostalgia, alle cantine durante il periodo della vendemmia. Scendiamo al piano terra, i suoni ovattati dal tepore del livello superiore si addensano in una miscela aromatica di rombare, ronzare, sbuffare e bofonchiare di macchinari preposti alle fasi successive della lavorazione. Saranno passati all’incirca tre o quattro minuti dall’inizio della visita, la guida accelera e in un paio di minuti ci illustra le tecniche del dondolio (rolling), della fermentazione naturale (fermenting), la macchina che asciuga il tutto (drying), poi taglia corto dicendo che le ultime fasi saranno la selezione e l’impacchettamento. C’è un certo ordine, una discreta pulizia. Per finire ci conduce verso l’uscita e si ferma davanti ad una vetrinetta su cui sono poggiate sei tazze da tè con dentro le varie miscele ottenute, dalla più scadente polvere, passando per quello sminuzzato fino al pregiato tè in foglia. Ho letto da qualche parte che il miglior tè dello Sri Lanka viene comunque esportato. La guida ci chiede se siamo soddisfatti e ci dice che possiamo recarci nell’edificio di fianco per una degustazione. Faccio una domanda: Per quanti anni una singola pianta può produrre del tè? Sessanta, risponde lui. Ringraziamo e non lasciamo nessuna mancia.

E così sembra proprio un gioco da ragazzi produrre del tè, ma c’è un business immenso correlato a tale attività. Lo sapevano bene i coloni inglesi quando impiantarono in questa regione un fitto mosaico di alberelli simili a bonsai. Lo doveva saper bene William Mackwood quando nel 1841, lui, capitano di una nave inglese1, fondò quest’azienda, in questa località remota, Labookellie, a duemila metri sul livello del mare e ventimila miglia da casa2. Adesso la famiglia, gli eredi o gli azionisti della “Mackwoods Limited Tea” gestiscono undicimila ettari di piantagioni e un grosso giro d’affari per cui vale la pena riportare testuali parole dalla loro brochure:

MACKWOODS TODAY:

HEALTHCARE – Medical Equipment, Pharmaceuticals
PLANTATIONS – Tea, Rubber, Oil palm
INDUSTRY – Industrial Machinery & Equipment, Industrial Chemicals
AGROBUSINESS – Fertilizers, Agro Chemicals, Agro Equipment
INFORMATION TECHNOLOGY – IT Education, Programming/Multimedia, Software & Web development
EXPORTS – Essential oils, Organic/Biofood, Coconut/Fibre Geotexiles, Tea, Rubber

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Capitan William sarebbe molto fiero di loro! Mi soffermo sulle ultime parole, quelle sotto la voce Esportazioni: “noci di cocco, fibre tessili, tè, gomma”. Mi sembra di leggere un libro di storia dell’Ottocento. In realtà adesso la Mackwood è gestita per una grossa fetta da investitori singalesi, probabilmente potenti funzionari di Colombo e ricche famiglie dello Sri Lanka che vivono a Londra, mentre una piccola porzione è ancora in mani britanniche.

L’edificio di fianco alla factory vera e propria è in pietra e con il tetto spiovente, l’ingresso rivolto verso il piazzale. In un’ala c’è lo shop in cui si vendono tutti i vari tipi di tè e infusi, tazze, porta bustine, contenitori e teiere, oltre che un mucchio d’improbabile merchandising (t-shirt, borse, portachiavi, etc.), mentre nell’altra ala è allestita -finalmente!- la sala per la degustazione. Gli interni di tale ambiente sono un misto di saloon western, nave pirata e salotto anni trenta. Io e Wije ci sediamo uno di fianco all’altro, vicino a una finestra con vista sulle colline, ci viene servito gratuitamente del tè (della peggiore tra le qualità prima illustrate) in una sontuosa teiera bianca con pacchiane rifiniture dorate. Alcuni turisti sorseggiano il tè in silenzio, sembrano delusi. Le ragazze con il compito di servire i tavoli sono velocissime e sorridono. Le tende alle finestre sono color caffè, o tamarindo. Wije, che fino a questo momento non ha aperto bocca, non ce la fa più a trattenersi ed esplode in un sincero sfogo. Mi racconta dell’altra faccia (the dark side) di tanta ostentata efficienza e armonia, spesso inghirlandata da nobili piani di carità e sviluppo sociale. Lui impiegato di un’ONG che si occupa di progetti rivolti all’aiuto e allo sviluppo delle più remote e deboli comunità locali, lui le conosce le condizioni di chi lavora nelle piantagioni, simili, se non peggio, a quelle di duecento anni fa, nella prima metà dell’ottocento, quando tutto ebbe inizio. Ma oggi siamo a due secoli di distanza, e le cose dovrebbero andare diversamente…

Wije mi racconta che chi lavora nelle piantagioni è di origine tamil e il compito più faticoso, quello della raccolta, è affidato quasi esclusivamente alle donne. Non riuscendo a persuadere i singalesi a sobbarcarsi il lavoro nelle loro piantagioni, i coloni inglesi dell’ottocento pensarono bene di importare consistenti quantità di manodopera tamil dall’India del Sud. Oggi i loro discendenti costituiscono la più grande delle due principali comunità tamil dello Sri Lanka e vivono e lavorano tuttora nelle grandi proprietà coloniali. Wije mi racconta di come queste comunità abbiano ereditato e in qualche modo metabolizzato la loro dimensione di oppressi, il loro incondizionato assoggettamento alle logiche di un lavoro estremamente duro, sottopagato, senza riserve e privo di ogni possibilità di riscatto. Accettazione come ereditarietà naturale. Mi racconta che anche per la sua ONG è quasi impossibile attuare progetti per il miglioramento delle loro condizioni di vita, mi racconta che lui una volta ci è stato in quelle che sono chiamate “Line House” (strutture strette e lunghe, come linee appunto) e ha visto con i suoi occhi in quali condizioni di estrema povertà imperversano quei lavoratori. Intere famiglie costrette a vivere in un unico spazio grande quanto una stanza, segmento della linea, che funge a secondo delle esigenze da cucina-sala-da-pranzo-camera-da-letto, servizi igienici inesistenti, scarsità di acqua, sporcizia, degrado, decadenza e precarietà. Un insieme di fattori che fa più pensare alla sopravvivenza che a una dignitosa esistenza. Wije mi parla di un organismo potente, un’autorità garante preposta al controllo della situazione di tali lavoratori così da permettere il ristagno di tali condizioni disumane a favore degli interessi dei proprietari e dei produttori. Persino il governo ha difficoltà nel trattare direttamente con queste comunità, qualsiasi forma d’intervento viene bollata come ingerenza non richiesta e non gradita da tale autorità che s’interpone sempre come mediatore. Giornalisti, attivisti, organizzazioni e mondo del volontariato non se ne parla nemmeno.

Ci sono diverse tenute, chiamate “Estate”, gestite da varie compagnie, con i propri lavoratori per ogni porzione di terra. Non sono in grado di dire se tali condizioni di estrema miseria interessino allo stesso modo tutte le aziende, ma non credo che la Mackwoods Tea si differenzi in particolar modo da tale trattamento nei confronti dei propri lavoratori. Sarebbe bello poterlo ammettere.

Mentre Wije continua nel suo sfogo –e le paghe minime, e il rischio di essere cacciati per un singolo giorno d’assenza per malattia, e i bambini di tali famiglie senza educazione, senza il minimo…- il mio sguardo corre inevitabilmente fuori, oltre la finestra. Lo scenario è quello incantevole che abbiamo visto lungo la strada fin qui, talmente bello e splendente da sembrare finto, colline di un verde che amplifica la salivazione, forme che accarezzano la vista. Vedo macchie bianche muoversi tra i mosaici delle piante, in lontananza, sono loro, le tea pluckers, quei puntini bianchi sono i sacchi in politene che portano sulle spalle, legati a una cordicella aggrappata alla loro fronte.

E ho una visione: un’enorme tazza da tè, titanica, come un abbeveratoio delle dimensioni oceaniche, e miliardi di minuscole bocche che si apprestano a sorseggiarne il contenuto, linfa vitale estratta dalla terra e delle anime dei lavoratori, il tutto sorretto da un paio di dita lunghe e affusolate.

1 Nella foto in bianco e nero, riportata nell’opuscolo dell’azienda, ricorda un Padre Fondatore, fiero, sicuro di sé, di certo il tipo di volto che ci si aspetterebbe da un capitano di una nave inglese dell’ottocento.

2 Anche l’immagine del veliero nella confezione dell’Earl Grey (la Mackwood propone 22 tipi diversi di tè) rispecchia a dovere i canoni dell’immaginario coloniale marinaresco.