Riprendiamo un discorso iniziato prima d’agosto con Giulia Usai che si trova in Bosnia con il Servizio Volontario Europeo. Un discorso che cerca di cucire i fili di tante storie spezzate dal conflitto e mai rimesse insieme. Uno sguardo che non ha l’intenzione di essere esaustivo sulla complessa situazione sociale e politica della Bosnia ma che ci consente di riflettere su quanto profondi possano essere i danni provocati dalle guerre, anche dopo decenni. Un modo per cercare di pensare anche all’oggi, al conflitto in Siria, ad esempio (ndr).

Testo e foto di Giulia Usai

Delimitata da un cortile che isola dal traffico dell’adiacente Mula Mustafe Bašeskije, l’antica chiesa ortodossa dei Santi Arcangeli Michele e Gabriele porta ancora i segni delle granate di guerra sul campanile in pietra. Resta una delle pochi enclavi del cristianesimo serbo-ortodosso della città di Sarajevo, menzionata in fonti ottomane già nel 1539. Il commesso del negozietto di icone accanto alla struttura è un uomo alto e pacato che ha superato i cinquant’anni, e accetta di raccontare il suo punto di vista di serbo-bosniaco che ha deciso di continuare a vivere a Sarajevo, anche dopo la fine del conflitto.

Con quale spirito convivono oggi le quattro religioni praticate a Sarajevo?

La situazione non è positiva, soprattutto per noi serbi-ortodossi. Dopo la guerra Sarajevo è diventata una città in cui la stragrande maggioranza degli abitanti pratica l’Islam, e anche questa chiesa è ormai visitata quasi esclusivamente da turisti, non da fedeli. Noi serbi-ortodossi siamo rimasti in pochi, e con i musulmani che prima della guerra erano miei amici – per quanto tra noi continui ad esserci cortesia – adesso manca la spontaneità. Continuiamo a salutarci, ogni tanto prendiamo un caffè insieme, ma niente è più come prima.

E quale pensa sia la ragione?
La ragione è la guerra. Ho partecipato alla guerra, ho combattuto dalla parte dei serbi. Ero giovane, pieno di idee che poi, a distanza di anni, rivaluto come ridicole. Ho fatto cose di cui non sono orgoglioso, che vorrei dimenticare, ma ci sono ricordi che ti ossessionano anche dopo decenni. A causa dei torti che ci siamo fatti gli uni contro gli altri, adesso è estremamente difficile pensare di tornare a sentirci un unico popolo, come durante la Jugoslavia.

In quanto serbo-ortodosso, ti scontri con pregiudizi?

Ho deciso di lavorare in questa chiesa anche se la mia famiglia non abita più qui, ma a Banja Luka, la città principale della Republika Srpska, perché credo nell’importanza di non abbandonare Sarajevo e di continuare a sentirmi parte di questo luogo. Mi sento rispettato e faccio il mio lavoro con devozione, anche se, ripeto, qualcosa si è guastato.

Come pensa si evolverà la situazione religiosa in Bosnia, in futuro?

Non sono molto positivo. I miei figli vanno a scuola a Banja Luka, frequentano solo serbi-ortodossi, non hanno amici musulmani e pochi cattolici. Io sono uno dei pochi serbi-ortodossi rimasti a Sarajevo, e bisogna capire che ormai siamo solo il 2% della popolazione. Non vedo come le generazioni successive potranno continuare a convivere, se non si confrontano quasi più.