Testo e foto di Giulia Usai

È pomeriggio, e la Sinagoga ashkenazita di Sarajevo, costruita nel 1902 in stile neomoresco, sta per chiudere i battenti ai visitatori. Un signore coi baffi neri, in completo elegante di colore acceso, con fare cortese ma fermo mi annuncia che è troppo tardi perché mi sia concesso l’ingresso. “Ma mi interessa solo rivolgerle qualche domanda, lei è ebreo?” chiedo. Un sorriso gli scopre i denti, e dietro le sopracciglia folte noto lo sguardo ironico e vivace: “Non si vede?” esclama con una risata. Chiude il portone accanto alla biglietteria e mi fa accomodare attorno a un tavolo circolare, dove già siedono un uomo dagli occhi buoni con la kippah e suo figlio, il piccolo David Jakub. “E così vuoi sapere come viviamo e cosa pensiamo noi ebrei di Sarajevo?” esordisce versandomi del caffè in una tazzina. La personalità frizzante di Eli Tauber sembra promettere una chiacchierata interessante.

Con quale spirito convivono oggi le quattro religioni praticate a Sarajevo?


Allora, partiamo dal presupposto che chi dice che in città è impensabile una convivenza serena dopo la guerra non è veramente di Sarajevo. Magari bosniaco, ma non originario della capitale. Noi sarajevini non potremmo concepire una realtà monoculturale. Nei secoli ci siamo sempre aiutati a vicenda, come ebrei siamo sempre stati vicini ai musulmani, agli ortodossi e ai cattolici, e non possiamo non essere grati a una città che ci ha accolto quando il resto del mondo ci cacciava. Alla scuola ebraica alla quale insegno sottolineo spesso ai miei studenti che la storia di Sarajevo è una storia plurale, e non mi piace il pessimismo di chi vuole negare secoli di convivenza portando ad esempio alcune diffidenze postbelliche.

E quale pensa sia la ragione di questo pessimismo?

Un’ignoranza della nostra storia. Fra il 1492 e il 1497 la Bosnia ed Erzegovina accolse gli ebrei sefarditi in fuga dall’inquisizione spagnola e portoghese. Nel 1686 quelli allontanati dall’Ungheria al tempo della cacciata degli ottomani dai suoi territori. Nella mia famiglia siamo sia sefarditi che ashkenaziti, perché la città ha fatto anche da punto d’incontro tra gli ebrei dell’Europa continentale e gli ebrei del Mediterraneo, e nel suo ventre c’è posto per tutti. Durante gli anni della guerra sono emigrato in Israele, ma sono riuscito a far avere il mio passaporto a un amico musulmano che l’ha usato per scappare dall’assedio. Dopo la guerra, poi, non ho avuto dubbi sul fatto di tornare a vivere in città. È importante che la nostra piccola comunità ebraica non abbandoni questi luoghi, e stiamo cercando di promuoverne l’espansione accettando nel nostro centro chiunque riesca a dimostrare di avere anche una remota origine ebraica.

In quanto ebreo, si scontra con pregiudizi?

Sinceramente no. A Sarajevo sono di casa e mi sento a casa.
È una città nella quale si intreccia la storia delle tre religioni monoteiste: Islam, Cristianesimo Cattolico e Ortodosso, Ebraismo, c’è posto per tutti. Come potrei sentirmi vittima di pregiudizi se siamo tutti sulla stessa barca?

Come pensa si evolverà la situazione religiosa in Bosnia, in futuro?

Io sono genuinamente, totalmente ottimista. Noi della comunità ebraica stiamo facendo il possibile per promuovere la conoscenza del nostro gruppo e della sua storia in città e in tutta la Bosnia ed Erzegovina. Ad esempio, loro due (e indica padre e figlio che ci siedono accanto, ndr) vengono da Mostar. Gli ebrei vivono in terra balcanica da tempi consolidati, e continueranno a farlo, in sintonia con le altre religioni praticate. Se conosci lo spirito di Sarajevo non puoi non confidare in un futuro positivo, nonostante una guerra.


Giulia Usai è in Bosnia con il Servizio Volontario Europeo. Ha pubblicato con noi le precedenti puntate:
Parliamoci parte 1

Parliamoci parte 2

Parliamoci parte 3