di Pasquale Doria
Un’altra storia tipografica ambientata a Matera, tra via Emanuele Duni e dintorni
Non l’ho mai dimenticato, ma non saprei definire i contorni netti del flusso di sensazioni che provo ogni volta che ci penso. L’ho capito più tardi, è certo che quel posto mi ha condizionato, e non poco. L’ambiente era generalmente dominato da una via di mezzo tra un sordo susseguirsi di rumori improvvisi e un più sommesso ronzio metallico. Ma non di rado nervoso, interrotto dalle parole che s’inseguivano lanciate a tratti ad alta voce e secche come comandi militari. Rimbalzavano da un angolo all’altro di un grande “lamione”. Mi sembrava ormai famigliare quella volta di tufo, così come l’inconfondibile colonna sonora di sottofondo. Era pur sempre musica meccanica, ma finiva per prevalere in ogni momento un clima amichevole, non certo ostile e, di tanto in tanto, dovevo andare a porgere il mio saluto, quasi per rinsaldare un antico patto.
Oggi, quel luogo lo immagino come una sorta di tacita conferma alle mie curiosità di allora. Il travaglio procedeva senza pause. Anche nei giorni di festa, e mi rassicurava. Ripeteva che tutto l’universo mondo sarebbe andato certamente avanti, almeno fino a quando la tipografia “Bmg” – questo l’acronimo delle iniziali dei cognomi dei tre soci fondatori, Basile, Madio e Giannatelli – non avesse smesso di macinare, giorno dopo giorno, il trascorrere del tempo sotto le sue potenti e invincibili presse. Forse una sorta di forma inconscia autoconsolatoria, mi dava la sensazione di essere anche io dentro un processo, inserito in una serie di ingranaggi in movimento di cui sicuramente potevo e dovevo fare parte.
Animato da suggestioni di questo tenore, mi fermavo a spiare, a registrare ogni movimento sull’uscio del numero 14 tutte le volte che potevo. Ero attratto con forza, come incantato da quel magnetico mormorio di macchine e laringi, dalle direttive improvvise che interrompevano la flemma del mare piatto di via Duni e sembravano impartire un ordine perentorio a tutto l’equipaggio, mentre accertavo che sincronicamente venisse eseguito all’unisono. Uno spettacolo. Ragazzotto delle scuole elementari, già spilungone, quello che incontravano i miei occhi rappresentava il mondo dell’avventura sotto casa, una sorta d’invito quotidiano osare, a non indietreggiare, ad avanzare senza paura davanti a qualsiasi nemico, visibile e invisibile.
Lì dentro mi lasciavano fare, in realtà, erano amici di mio padre. Via Duni, a ridosso dell’allora sede del Comando provinciale dei carabinieri, era come una grande famiglia. Momento preferito per evadere, dopo avere pranzato, quello del lato ombra. Un rituale che si ripeteva soprattutto durante pomeriggi estivi lunghissimi. Non finivano mai e lì dentro c’erano quelle macchine tipografiche con il loro peso da finte magre, filavano azionate da massicci volani, tra lievi vapori, ma leggiadre come sirene, un richiamo irresistibile.
Non c’era bisogno più di tanto per immaginare mondi fantastici. L’aria non era ancora appestata dall’ossido di carbonio delle auto e tutta la strada era invasa da un odore penetrante, lasciato libero di arrivare fino a palazzo Lanfranchi, che nessuno chiamava così. Lanfranchi chi? Ma per la semplice ragione che per tutti era solo “il Liceo”, anche se non si tenevano ormai da anni le lezioni di latino e greco. Intanto, l’afrore d’inchiostro fluttuava e vagava a suo piacimento nell’aria. Più che altro finiva per essere assimilato a uno speciale tratto distintivo, un elemento di riconoscimento urbano su scala olfattiva: era l’odore di quelli che abitavano in via Duni. Si può definire un profumo quasi ferroso? Magari parente lontano di qualche solvente o miscela al benzene? Era l’inchiostro a catturare le narici e si confondeva con quello più secco e delicato della carta. Tutto si mescolava facendo manfrina con le cassettiere ancora grondanti il succo denso di chissà quali alate pubblicazioni e profondi pensieri. Tra quelle forme squadrate, l’attrazione principale erano i caratteri scolpiti in legno, più grandi, così li ricordo. Ricercati anche quelli di piombo che, saldati insieme a formare un nome, spesso erano destinati a diventare fermacarte sottratti ai torchi e alle indistruttibili pedaliere in ghisa.
Funzionava ancora quasi tutto a mano. C’erano anche alcuni artisti famosi che venivano a stampare lì. Ho capito solamente molti anni dopo chi erano. Il torchio manuale cantava e la memoria spesso mi porta proprio in quella direzione. Netta l’immagine di Enzo Giannatelli, veloce come un fulmine, che si occupava del posizionamento della carta sotto quelle macchine magiche. Avveniva tutto con gesti sicuri, foglio per foglio. Le varie inchiostrature davano sfogo ai colori dell’arcobaleno, mentre su tutti gli altri supporti cartacei era il regno incontrastato del bianco e nero. Neri erano anche i grembiuli, di dipendenti e titolari, nessuno escluso. Stessa cosa per le mani, per ovvie ragioni. Ma quella volta lo divennero pure i volti di tutti i residenti di via Duni e dei suoi vicoli, fino a Case Nuove.
Accadde una brutta domenica d’estate. Uno dei ragazzi, che nel tempo libero giocava con noi a pallone al Liceo, e che stava iniziando a imparare a fare il mestiere di tipografo, andò al mare con gli amici, a Metaponto. Tornò a casa, dove abitava la sua famiglia, non lontano dalla “bottega”, con un’autoambulanza e ormai senza vita. L’azzurro dello Jono gli aveva rubato tutti i segreti e le tonalità dei colori che aveva cominciato a scoprire al numero 14 di via Duni. Lo stesso lamione in candido tufo dove si poteva sognare ancora a occhi aperti senza pagare nessun biglietto. Eppure, continuammo a sognare, fino a quando la Bmg, un giorno che non dimentico, andò via. Si trasferì nella zona artigianale, proseguendo lontano dal centro storico l’attività iniziata nel lontano 1957. E fu allora che arrivò quasi a un passo dal successo su scala nazionale, quando, all’inizio degli anni Settanta diede vita a una nuova casa editrice. “Meta”, fu battezzata con questo nome evocativo.
Libri così belli a Matera forse non se ne sono mai fatti prima, ma neanche dopo.