testo e foto di Donatella Calati
Ci sono foto che, a distanza di anni, ti danno la stessa sensazione di malessere di quando le hai scattate.
Un punto indefinito del deserto algerino verso il confine con il Niger. Viaggiamo nel piatto assoluto, visibilità a 360°, sabbia appena increspata; amiamo questa sensazione di libertà, questo silenzio totale
Ci si sente come in una capsula spaziale, immersa nel nulla e pienamente autosufficiente. I viveri sono ben stipati nella dispensa, il carburante e soprattutto l’acqua necessaria riempiono serbatoi da centinaia di litri.
Ma non siamo soli in questo nulla.
All’orizzonte due fuoristrada come il nostro. Altri turisti? Poco probabile. Avvicinandoci si intravede un brulicare di persone, una massa indistinta di una trentina di uomini, alcuni ancora accovacciati nel cassone del pick up, altri sdraiati sulla sabbia, altri ancora in piedi tutt’attorno a sgranchirsi le gambe.
Noi siamo in tre su due macchine.
Se si avvicinassero in gruppo gli sarebbe facile pretendere un sedile confortevole, qualche scatoletta e soprattutto la nostra acqua, mettendoci in seria difficoltà. Ma nessuno si muove, troppo spaventati all’idea che il Toyota possa ripartire all’improvviso, lasciandoli a terra, bagagli ingombranti e poco interessanti. Chiudiamo le portiere, avviamo il motore e ci allontaniamo oppressi da un senso di colpa e di impotenza e non ci consola il pensiero che forse anche San Martino avrebbe avuto qualche difficoltà a dividere il suo mantello in trenta strisce.
Oggi le nostre strade si intrecciano con quelle di altri ragazzi approdati qui alla conclusione di quel viaggio nel deserto. Non sono più una massa indistinta ma ‘persone’ che ci raccontano le loro paure e le loro conquiste, volti amici ai quali possiamo dare qualcosa e dai quali possiamo ricevere molto.