di Marco Turini
Sabato 6 ottobre 2012. Festival dell’Internazionale. Un appuntamento immancabile per chi è “innamorato” della libera informazione e del giornalismo mondiale. All’interno della rassegna non poteva certo mancare un incontro con alcuni giornalisti polacchi definiti professionalmente e stilisticamente i naturali “eredi” di R. Kapuscinski, il grande cronista, meglio conosciuto anche per i suoi scritti a metà tra reportage e letteratura di viaggio. Il tema emerso fra le righe di questo incontro volto a presentare le nuove voci del giornalismo polacco (Wojciech Tochman, Wojciech Jagielski e Mariusz Szczygieł) è quello di parlare di un genere letterario “nuovo” definito dagli stessi relatori come “reportage narrativo”. Il reportage narrativo, meglio conosciuto in Italia come “giornalismo di viaggio” è già stato felicemente interpretato da numerosi storici e scrittori italiani a cominciare da Guido Piovene, passando da Malaparte e finendo ai grandi reporter come Tiziano Terzani. Un genere letterario tanto seguito da far dedicare festivals, eventi, librerie specializzate e istituzioni consacrati alla categoria e da far sfornare solo in Polonia circa 8000 pubblicazioni l’anno. Ma non è facile comprendere quando il genere giornalistico diventa pura letteratura e si confonde con le tante pubblicazioni “di viaggio”. Da parte dei lettori, dicono gli stessi autori, c’è un interesse crescente a conoscere il dettaglio ed il particolare rispetto ai dati cronachistici “puri”. C’è più spazio e partecipazione per i “fatti” che coinvolgono le persone comuni che vivono giornalmente determinate realtà e complessità geopolitiche e sociali. Si registra in generale un’attenzione crescente nei riguardi delle vicende più intime dell’uomo. Non si cerca di capire solamente una popolazione nella sua (a volte drammatica) quotidianità ma si cerca di comprendere anche chi o che cosa questi uomini amano (oppure odiano) e per quale motivo. Perché dietro a queste realtà sociali ed umane potremmo esserci noi, con la nostra storia, raccontata da un giornalista di passaggio.
Non è finita. Questi erano i temi principali. C’è un altro argomento, molto più scomodo, che è emerso inatteso fra le parole piacevoli e colloquiali dei tre interlocutori, l’interprete ed il moderatore Andrea Pipino (Internazionale). Si tratta del destino del giornalismo tutto, non solo polacco. Alla domanda da parte di A. Pipino sull’attuale attività lavorativa dei tre professionisti dell’informazione si è avvertito immediatamente un silenzio imbarazzante, (ma non inaspettato) ed una risposta che ha lasciato perplessi molti degli spettatori. I tre giornalisti, con un esperienza pluriennale, numerosi reportage e pubblicazioni alle spalle, semplicemente… non lavorano più come reporter sul campo, almeno non in data odierna o comunque senza percepire un compenso regolare da parte di altre testate giornalistiche. E qui non si parla più di “letteratura di viaggio” ne tantomeno di “reportage narrativo”, qui si parla del futuro di una categoria e di riflesso di un genere giornalistico. Fare il giornalista di viaggio come “arte” o mestiere è ormai divenuto credo un costoso hobby (parlo ovviamente da esterno alla categoria e da umile testimone dei tempi che corrono). Se si ha la fortuna di viaggiare per un giornale lo si deve fare in tempi ristretti e magari reperire le informazioni su internet per risparmiare tempo. Non si capisce più chi o cosa fa notizia. Oggi i anche i giornali importanti pagano pochi spiccioli (ed intendo spiccioli) per articoli e fotografie solo per riempire le proprie pagine. “Seicento euro per raccontare il disastro di Haity”, questo è quello che viene riportato da uno dei tre giornalisti riguardo all’offerta fatta da un editore ad uno dei suoi colleghi più promettenti per intraprendere un viaggio e rischiare la pelle nell’allora inferno caraibico.
E così le grandi testate si affidano ad agenzie “specializzate” che a loro volta diffondono le informazioni “ufficiali” oppure quelle divulgate da poche “autorevoli” fonti attuando un’omologazione della notizia, una ben scarsa democrazia di pensiero che si riflette a livello regionale, nazionale ed internazionale. Si ritorna indietro nel tempo, si crea un paradosso temporale fra innovazione tecnologica ed informazione degna forse solo dei vecchi stati totalitari quando una sola “verità” veniva suggerita da un’unica fonte. Si uniforma la notizia e si oggettiva il dato quando in realtà uno dei punti di confronto fra gli autori è proprio la soggettività del reportage di viaggio che per natura, al di là degli eventi singoli ed inconfutabili, viene sempre interpretato, compreso e vissuto dal singolo giornalista. È per questo che il reportage di Terzani non sarà mai uguale a quello di Kapuscinski poiché questi sono due persone con sensibilità e backgrounds completamente diversi. Non c’è posto nei moderni giornali fra post cartacei e tweets virtuali, articoli sillabati ed informazioni al minuto per i lunghi reportage “raccontati”.
Così il reportage narrativo che ha tematiche più ampie rispetto ad un servizio cronachistico emigra dai grandi giornali e si promuove nei caffè letterari, nelle grandi librerie e magari nelle riviste on-line. E il giornalismo di viaggio diventa subito cult letterario. La sua fortuna sta proprio nella libertà con cui gli autori possono esprimersi per descrivere lo stesso avvenimento o situazione sociale. Ed in questo senso i tre giornalisti sono oggi forse più scrittori di ieri. Perché la storia si ripete e al di là dei singoli avvenimenti, la vita può essere raccontata a distanza di giorni, mesi, anni. È questo il “giornalismo lento”, quello che avviene solo a contatto con le persone e le loro storie, paure, sentimenti ed aspirazioni. È se è la “lentezza” quella che cerchiamo nelle letture che trattano di popolazioni lontane o nei rapporti con il nostro prossimo forse allora siamo tutti un po’ eredi di R. Kapuscinski.