Testo e foto di Andrea De Rossi
Mi ritrovai così in un angolo del Marocco, completamente fuori tono rispetto alle città-medina del nord del paese, e nemmeno simile ai villaggi berberi incontrati per arrivare fin là. Ero a Bouarfa, nel Sud-Est, vicino al confine algerino. Una piccola cittadina, ma grande rispetto ai paesi incrociati da Guercif in giù.
Spinto là non per qualcosa in particolare, ma per la sola curiosità, sicuro di poter osservare qualcosa di diverso nella gente e nei luoghi.
Nonostante l’ambiente desertico sia predominante, in realtà Bouarfa si trova su un enorme altopiano che dal valico della catena del Medio Atlante si prolunga fin oltre il confine marocchino, un deserto posto ad oltre 1000 metri d’altezza.
Curato solo sulla via principale appena ci si addentra tutto cambia: case in apparente fase di costruzione, molte ancora senza un tetto, le finestre incorniciano l’ambiente circostante e il tutto sembra in un lento ampliamento. Non c’è il chiasso delle medine, anzi, tra le vie secondarie domina il silenzio; qualcuno molto tranquillamente lavora, qualcun’ altro semplicemente non fa nulla, i bambini giocano, vige la calma assoluta.
Ed un po’ più in là, però, esplode di nuovo il caos: il mercato, quello classico, dove si vende di tutto, dalle cipolle alle ciabatte. Affacciandosi lì si vede un’allegra confusione di persone: un recinto in muratura, uomini e pecore. C’erano tante pecore, talmente tante che erano sicuramente di più di quelle che avevo visto in tutta la mia vita. Tantissime pecore e tante persone, indaffarate a contrattare sulla qualità della loro lana. Mi trovavo ad assistere a una scena d’altri tempi. Non potevo non trovarmi a riflettere sulla relazione che questi uomini avevano con il proprio bestiame, su quanto tutto mi sembrasse appartenere a un’altra epoca e allo stesso tempo in che tipo di relazione questo stesse con il modo industriale di produrre carne per l’alimentazione umana.
In viaggio ci si trova a varcare delle porte spazio temporali che nemmeno vediamo e ci possono essere piccoli elementi di riflessione che ti fanno percepire la sensazione di essere finiti in un mondo completamente nuovo. Ero solo a Bouarfa, porta di accesso al territorio della tribù di Beni Guil che ha dato il nome a una famosa razza di pecore. Una tribù che considera questi animali il bene più prezioso che ci sia, animali noti in tutto il paese per la qualità della loro lana e carne. Allora immagino cosa non debba essere questo piccolo mercato per la festa del sacrificio quando per ogni marocchino non c’è cosa più importante che portare a casa l’animale della festa. E mi domando anche quanto sia cambiata la vita di queste persone appartenenti ad una tribù nomade che negli ultimi trenta anni ha vissuto un fenomeno di urbanizzazione e sedentarizzazione rapido ma inesorabile. Più di un terzo di questa tribù, che tradizionalmente era nomade e dedita alla pastorizia, adesso vive in villaggi e cittadine tra Oujda e Figuig dove sono in contatto con altri cittadini con dialetti differenti. Per quanto tempo ancora ci sarà la possibilità di vedere quello che è capitato di vedere a me per pura curiosità?