Di Andrea Semplici
Valle Santa, Qadisha Valley. Nord del Libano. I paesi sono oltre i millecinquecento metri. Canyon che taglia, come un rasoio, le montagne e precipita verso il mare. Terra cristiana. Paesaggio di rocce e vertigini. Maroniti. Questo è stato un loro rifugio per secoli. Hanno lasciato impronte nelle pietre. Identità di un monachesimo caparbio. Hanno costruito monasteri appesi alle rocce, si sono nascosti in grotte di eremiti, hanno tirato su campanili sui confini dei precipizi. Identità. Un prete-filosofo, nella piazza di Bcharri, racconta di una religione senza misteri e spiega come fisica quantistica e fede possano compiere un viaggio assieme per svelare l’incomprensibile. Ci regala un libro prezioso e dotto dove ‘il gatto di Schrödinger e il Piccolo Principe aiutano nel dialogo verso Dio. Non vi sono misteri in Dio, qualunque Dio, l’uomo ha saputo raccontarlo.
Nelle chiese cristiane vi è una pietra che lenisce le pene del corpo. Le donne musulmane, a volte, vengono a cercarla, si sfiorano la pancia: la pietra può donare fertilità. Non ho pensato di sfiorare i miei gomiti di piaghe sulla levigatezza di questa pietra.
Mi chiedo sempre: che paese mi sta scorrendo sotto gli occhi? Ho nei pensieri ‘Cafarnao’, film duro e ribelle di Nadine Labaki o ‘Underdown’, primo film possente di Sarah Kaskas. Viaggi negli abissi di Beirut, quelli che non vedrò. E adesso sono nella bellezza selvatica e strana di questo paese. Fra monaci dalle barbe lunghe e cemento che sfida le leggi di gravità. Le seconde case di chi può permettersele: si sale in montagne per sfuggire al caldo della costa. Salgo fino ai Cedri, fino agli alberi superstiti che provano a resistere agli uomini e agli inverni, alberi che si fondono gli uni con gli altri, rami che si abbracciano per sopravvivere assieme. Già, vivere assieme. I cristiani hanno quasi abbandonato Tripoli, sono andati a vivere nei paesi delle campagne. In molti se ne sono andati. Non c’è lavoro. Sognano il Canada. E si tengono addosso la nostalgia immaginifica del Libano.
A notte, scatto la prima fotografia che mi piace (nel senso: mi è piaciuto scattarla). Strada di Bcharri. Trovo un istante mediterraneo, mediorientale, levantino, la quiete che, per un momento, consola. Sono così stanco di guerre e di grovigli. Un uomo davanti al suo negozio. Sarà il barbiere o il venditore di kebab? La sua sedia di plastica bianca è nel mezzo fra i due locali. La notte è fresca in questa montagna. Un vento leggero, primo avvertimento di un autunno che arriverà. Ma ancora si sta bene, ancora un’ora, ancora un po’ di serenità, pensa l’uomo seduto. In qualche modo mi coinvolge nel suo istante perfetto. Sappiamo entrambi che questo incanto (l’incanto che è anche dei cinema all’aperto e delle notti ai tavoli di un bar) verrà presto sopraffatto dalla neve di un paese di montagna sorta a ridosso del mare.
Mi metto di fronte all’uomo. Lo guardo, non alzo la macchina fotografica, non avrei mai creduto di essere capace di fotografare senza l’occhio nel mirino. Ma voglio che ci sia un’intesa fra noi. Scatto. E dopo, un piccolo inchino reciproco. Questa sarà un’amicizia che rimane.
Sono certo che è il barbiere (a volte la mia lentezza è un difetto serio: avrei potuto chiedergli di mettere a posto la barba, invece me ne sono andato).