Di Andrea Semplici

Zahlé, Beqāa’ Valley.
Abuna Mai, padre Acqua, ci porta nei campi dei profughi siriani. Abuna Mai è un prete cattolico. Qualcuno lo aveva messo sull’avviso: ‘Non andare da quelli, hanno sparato su di noi’. Abuna ha alzato le spalle ed è andato: vi era bisogno di acqua in quel campo con migliaia e migliaia di uomini e donne fuggiti dalla guerra e lui, con altri frati, due volte a settimana andava in questo mondo a parte del Libano. Portava l’acqua. Non lo hanno dimenticato questo gesto. I bambini hanno già saputo del nostro arrivo e spuntano da ogni lato, adorano Abuna Mai. E’ sera, gli uomini sono seduti ai confini del campo. Ci guardano passare, ragazzi guizzano con i motorini.

Incontro Ahmed, Hammoudi, Mohamed, Raudi, le loro famiglie, arrivano amici a salutarci. I figli piccoli sono tutti nati nella valle della Beqāa’. Mohamed ha attese cinque figli prima che nascesse il maschio e la moglie adesso ha fatto capire: ora basta.

Sono fuggiti anni e anni fa alle prime cannonate. Nove anni fa. Voi cosa avreste fatto? Da sempre l’uomo ha percorso la valle della Beqāa’: per andare, per commerciare, per conquistare, per fuggire. Passaggio naturale. Come si vive per nove anni da profughi? In questa terra i profughi hanno trovato uno scampo da secoli. Ahmed è fuggito da Aleppo. Oggi paga cento dollari di affitto per il terreno dove è la sua baracca. Ha messo tendaggi eleganti a coprire plastiche e polistirolo. C’è il televisore e un computer e i cuscini. Fa il musicista, Ahmed. Vive suonando alle feste. La moglie prepara marmellate e yougurt. Sei figli, cinque nati in Libano. Un popolo in fuga. Un milione di persone, secondo le Nazioni Unite. Forse sono un milione e mezzo. E dovranno andarsene.

Alla fine hanno smantellato il grande campo di Zahlè. Sono sorti altri campi più piccoli. Questi uomini e donne (e i bambini? Dove vanno a scuola? Che documenti hanno?) non hanno lo status di rifugiati, sono ‘displaced’, gente che si è spostata. I libanesi sono in allarme: i fuggitivi cambiano gli equilibri fragili del paese. Pochissimi siriani hanno permessi di lavoro. Si è clandestini, sotto gli occhi di tutti, mentre si raccolgono pomodori e verdure. Mentre si fa i muratori. E’ la storia della gente che fugge, che migra, che cerca un futuro. Accade ovunque. Non vedi differenze fra la Felandina di Metaponto, là in terra d’Europa, e qui, crocevia del Medioriente. Sorgono campi, baracche, insediamenti. I guai sono sempre i soliti: acqua, rifiuti, salute, infiltrazioni oscure e gente che vuole solo vivere. Accadde per gli armeni cento anni fa: oggi, a Beirut, quel campo di gente fuggita dal primo sterminio del ‘900 è il quartiere di Bourj Hammoud. Si vede ancora l’urbanista di un insediamento che doveva essere provvisorio. La comunità armena si è dimezzata dopo la guerra in/civile libanese finita nel 1990; ancora una fuga. Settanta anni fa, fu la volta dei palestinesi ad arrivare qui, fuggivano dalle loro terre, furono cacciati. I loro campi, oggi, sono quartieri di Beirut. I palestinesi non hanno il diritto di lavorare, possono solo ‘aspettare’. Cosa? E i siriani torneranno nella loro terra dilaniata dalla guerra?

Parlo in spagnolo con un uomo. Se ne era andato quindici anni fa. In Venezuela. Deve aver trovato un equilibro. Adesso è tornato, vuole convincere sua madre a venirsene via da Aleppo: ‘Ha vissuto le bombe cattive’, mi dice. E si mette in cammino. Hammoudi deve salutarci. Questa notte lavorerà fino alle due del mattino. Dice che sta in un negozio. Ahmed e suo figlio più grande tolgono le custodie agli oggetti più preziosi: due pianole. E ci regalano la musica di Titanic (ecco, un campo, una baracca, l’odore di latrina che ci accerchia, immagino i giorni di pioggia e gli inverni, siriani sunniti, un prete cattolico e mi appaiono Di Caprio e Kate Winslet sulla prua della nave più celebre del mondo). Rauda ci offre marmellata di amarene. I bambini non mollano Abuna Mai. Io fotografo bambolotti di pezza appesi all’attaccapanni, unico mobile di questa stanza. Mi commuove una pantera rosa sulla porta di ingresso.