Di Andrea Semplici
2153 chilometri
Appaiono messaggi sui cellulari degli espatriati. ‘Vi invitiamo a prendere precauzioni, a rimanere vigilanti, a evitare luoghi all’aperto’. Domenica mattina, lungomare di Sidone, un trenino rallegra bambini, ragazze si prendono il sole, libanesi di oltreoceano salgono sugli spalti del castello crociato e si fanno selfie audaci. Ombrelloni sulla spiaggia. Noi ci chiediamo se la veranda del caffè sia o no uno ‘luogo aperto’ e ordiniamo una birra. Siamo ‘vigilanti’? Nella notte, due droni israeliani sono ‘caduti’ su Beirut, quartiere a sud del centro. I giornali si affrettano a precisare: quartieri controllati da Hezbollah. Sono quartieri sciiti nell’urbanistica confessionale della città. Danneggiata la televisione ‘Al manara’. Nessun ferito.
Insomma, Beirut, per la prima volta dal 2006, anno della guerra fra Hezbollah e Israele, invasione fallita del Libano, è stata ‘bombardata’. Rileggo questa ultima parola e mi guardo attorno: nessun soldato in più, nessun poliziotto, nessun allarme. I miei amici rimettono in tasca il cellulare e ricominciamo a goderci una domenica a Sidone, bella città del Sud.
‘Questo è il nostro modo di vivere – mi racconta Maria – non ne abbiamo un altro, altrimenti vivremmo nella paura’. ‘Quando, dieci anni fa, cadevano davvero le bombe, aspettavano un’ora – ricorda Paul – e ricominciavamo la nostra vita. Il quartiere in cui era caduta diventava il più sicuro’. Si andava al bar, mentre un chilometro più in là i pompieri spengevano i crateri delle bombe. I giornali non ci raccontano mai la vita oltre le notizie. Leggo ‘Repubblica’: ‘Si accende la guerra dei droni’. Devo rassicurare mia figlia: sto bevendomi arak con ghiaccio. Il cameriere è attento a dosare l’acqua.
Il Libano è un paese insensato. Non ti lascia in pace. I suoi ragazzi, le sue donne, i suoi artisti, i suoi preti, i suoi imam, la gente si sfiora, si vede, si guarda, sa di vivere su fili sottili e fragili, i siriani clandestini sotto gli occhi di tutti, le Lamborghini sulla Corniche e le vecchie auto malandate. Il Libano ti avvolge come la tela di un ragno. Nella sua diversità assoluta. Terra stretta, Tiro è a poco più di cinquanta chilometri da Haifa. Damasco è a un passo. Le bandiere degli uni, le bandiere degli altri. Viene voglia di mischiarle, di prenderli tutti per mano e di fare un grande girotondo. Scambiandoci santi, veli, gonne, tuniche, costumi da bagno, profeti…
Beirut, mi avverte un segnale, è 2153 chilometri lontano. Il traffico di Roma mi appare più aggressivo di quello della M51 che, ogni sera, mi portava a Jeitah come se fosse una pista di automobile. Almeno là non ci insulta, ci si dà semplicemente da fare, con rispetto della bravura o del coraggio degli altri. Devo stare attento all’ultima curva, per imboccare il tunnel giusto…Beirut non ammette incertezze.
Chiudo il libro. Sapevo che Nizam sarebbe morto perché guardava il sole. Ma era la sola maniera di esistere: guardare il sole. Non aveva scampo, ma non poteva vivere altrimenti. E niente sulla sua carta di identità (perduta) indicava la religione. Nel giardino di Tuma e Rakhima, lassù sulle montagne, nelle caldi notte d’estate, ‘le lucciole sperdute si radunavano a sciami come se si fossero date appuntamento’.
(queste sono le ultime righe di un libro da leggere: ‘San Giorgio guardava altrove’, di Jabbour Douaihy, ed. italiana di Feltrinelli)