Testo e foto di Tommaso Chimenti
Contraddizioni e Balcani. Separazioni. Chiusure. Skopje si trova nel mezzo al quadrilatero formato da Pristina, in Kosovo, Sofia, in Bulgaria, Salonicco, in Grecia, Tirana, in Albania. Dove ti volti sono frontiere, confini, passaporti e visti e timbri. Siamo in Macedonia del Nord. La bandiera è un sole giallo su sfondo rosso, un Sol dell’Avvenire che ricorda quella giapponese. Il terremoto del ’63 aveva raso al suolo la vecchia Skopje e la ricostruzione (costata 600 milioni di euro) ha creato una creatura ibrida e multiforme per appassionati architetti o per fotografi dai tanti spunti. Un accatastamento, un affastellamento, una somma continua di misure e strutture. Se appena usciti dal centro i marciapiedi sono divelti, le case distrutte ed occupate, famiglie dormono sotto i ponti, molti cercano cibo dentro ai cassonetti e ci sono cani randagi in quantità industriale, il centro è una scintillante Las Vegas dove edifici in onore a Madre Teresa di Calcutta (c’è anche la sua casa) si spintonano con gigantesche colonne neoclassiche e templi, banche dalle vetrate riflettenti e statue comuniste con figli che partono alla guerra e bandiere che sventolano, casinò per turisti e l’Old Stone Bridge, anch’esso ricostruito, della metà del ‘400.
Costruzioni indiscriminate senza un preciso disegno complessivo. Nel fiume, basso e melmoso, pescano ancora ma quello che maggiormente salta agli occhi e che spunta grossolano e invadente sono i galeoni immensi, addirittura tre, che sembrano usciti dai Pirati dei Caraibi, dove al loro interno spumeggiano ristoranti vip e hotel top. E poi fontane (dentro le quali non annegano nemmeno uno spicciolo: il benessere si vede anche da queste cose) e giochi d’acqua si inseguono con i marmi bianchi, i lampioni e il gusto per le statue ha un po’ preso la mano: guerrieri, leoni, spade, cavalli in un incrocio kitsch e mastodontico del quale non se ne capisce bene il senso. Stucchi e santi mentre sotto vendono pannocchie, cantieri aperti e cumuli di macerie, teatri (qui convivono quello macedone, quello albanese e quello turco) e l’Opera con una predilezione per il cemento.
Tutto è sovradimensionato rispetto alla popolazione. Addirittura si erge un Arco di Trionfo e la copia del toro di Wall Street. Eros Ramazzotti è stato qui in concerto il 30 settembre. Tanti turisti giapponesi, i tour operator stanno lavorando bene. Donne completamente velate in nero con la sola fessura degli occhi ad immaginare il mondo e auto truccate che sgommano sui viali, gli autobus cittadini a due piani rossi come quelli londinesi, i lucchetti attaccati sui ponti (simili a quelli di Lubiana) ricordano amori certamente già finiti. Se alzi lo sguardo da una parte una croce, che la notte si illumina, a proteggerci (quasi, senza voler essere blasfemi, un Cristo del Corcovado) mentre dall’altra ciminiere che sbuffano e sputano senza sosta. Appena si lascia il centro a misura di turista, ci accolgono giardini incolti e una generalizzata incuria, aria di disfacimento, di perdita, di caduta, di arrugginito, di lasciato a se stesso: Skopje “è ‘na carta sporca e nisciuno se ne ‘mporta e ognuno aspetta ‘a ciorta”.
I macedoni la definiscono “barocca” ma forse non conoscono bene il significato della parola. Cenci e cianfrusaglie, scartoffie e scatole, desolazione, aria di dismissione lontano dalle palme in stile Cannes piantate sul lungo fiume. E poi moschee e minareti e la grande fortezza fanno da spartiacque con la parte più colorata e viva della città, sicuramente più autentica: l’Old Bazaar, città dentro la città, fatto di stradine in pietra, di venditori di limonate e banchi dove vendono paprika e burek, pasta sfoglia con verdure e carne.