testo e foto di Carla Oppo
Ci sono stata solo un giorno. Anche per questo di Vienna avevo raccolto minuziose impressioni sul telefono che mi avrebbero rubato una volta tornata a Roma. A distanza di qualche stagione ho fatto un appello alla memoria, mi sono sforzata di ricordare gli appunti presi e persi. Molta cronaca ho dovuto distorcerla e infarcirla, come i sogni pensati il giorno dopo. Il sole fonde i protagonisti e tu pretendi di riempire i vuoti: «era questa persona o era quell’altra? Facciamo che era questa, nel corpo dell’altra», e poi magari era quell’altra nel corpo di questa. Ma te ne accorgi, se te ne accorgi, nel pomeriggio, quando con la bic vai a cerchiare il detersivo in offerta sul volantino del supermercato (chi cerchia trova?).
Si può avere memoria, a patto di dimenticare qualcosa. Così in questi mesi ho perso alcuni pezzi del viaggio: ho scordato le file nei bagni pubblici, alcuni accenti, almeno due monumenti, la forma della città vista dalla mappa per turisti che mi hanno dato in omaggio, ecco, non ricordo dove.
Ho poi mescolato: senz’altro l’ordine delle cose, e certi pensieri fatti, che colloco forse per naturale sentimentalismo appena prima del tramonto.
Altri dettagli della giornata viennese mi appaiono invece nitidi, come fermi nel tempo.
La mattina precedente sedevo al tavolo di un mercato all’aperto: spritzer e cetrioli sottaceto, il viso caldo. Due amanti sceglievano grappoli di ribes, più avanti una signora vestita d’arancio faceva la fila per un pretzel con lo sguardo di chi è certo stia dimenticando qualcosa (ma cosa?).
Un festival di cinema mi aveva portato in un piccolo comune vicino alla città; il sobborgo aveva l’aria di un giorno festivo, avrei visto Vienna di domenica.
Ed eccola: arriva sempre, la domenica. A Stephanpsplatz un signore con la faccia da Mozart si lascia andare a uno sbadiglio asburgico.
La ragazza con l’abito rosso finisce le pose, il fidanzato continua a scattare.
Tre signori attempati parlano di calcio europeo forse per dimenticare che uno di loro voterà ancora a destra.
Una vecchietta guarda le vetrine con garbo imperiale. Alla terza boutique della Graben, il marito la tira via: sono stanco, mangiamo qualcosa amore mio.
Mordo kartoffeln e wurstel presi da un ambulante, li accendo con la mostarda mentre un gruppo di portoghesi è a caccia della miglior sacher del Paese. Due amiche si stringono su una scalinata: una ride, l’altra piange. Le perdo di vista e le ritrovo per caso: ora ridono entrambe, si scambiano le lacrime e io penso al sale che infiamma l’adolescenza.
I turisti dimenticano Karlsplatz, ma non il giapponese con la camicia a fiori. Il laghetto riflette le nuvole: fiocchi bianchi, un campo di cotone. Ci specchiamo, il ragazzo vestito di papaveri ed io.
Metto in rassegna i dettagli, non so bene cosa farne, di certo rimane sulla pelle l’aria della città. Quella giornata fatta di passi mi aveva lasciato addosso la sensazione che la dolce solitudine sarebbe presto evaporata in favore di una qualche condivisione. Vienna preludio: avevo e non avevo ragione.
Mi torna in mente una nota scritta sul telefono durante una pausa a Piazza Freyung. L’avevo ripetuta tra le nuvole, sull’aereo verso casa, posto finestrino, accanto alla ragazza romana che profumava di albicocca: «L’architettura mi travolge, ma non riesco a vedere lo spazio. Cerco un punto di fuga. Mi perdo tra vicoli del centro, immagino la città sedotta dalla nebbia, mi vedo correre verso una taverna, un rifugio senza tempo, ordinare un piatto caldo, consumare un vino rosso. O due, in due».
È buffo, il ricordo più preciso del viaggio è un momento che ho solo immaginato di vivere. Ma dice molto di me, che cammino sulla Graben zaino in spalla mentre l’estate bacia l’autunno.