Testo e foto di Mauro Bonciani

Il cinguettare delle rondini che si ricorre nel cielo, i rintocchi delle campane, il crepitio della ghiaia sotto i passi. A lungo i soli emozionanti suoni, che riscaldano il cuore e rallentano il respiro, nel silenzio di strade e piazze. E “Volare” di Modugno al massimo volume dai telefonini e dai balconi, con le lacrime frenate a stento, quasi all’inizio della storia e della pandemia.

E il rap arabo che arriva dalla corte, divertente all’inizio esasperante alla terza ora, ma anche il ragazzo che si esercita al violino di cui ignoravi l’esistenza e che ti costringe a fermarti, metà stupito metà invidioso perché per te è impossibile suonare qualsiasi strumento. E il vecchio “donne è arrivato l’arrotino… l’ombrellaio…” risentito come per miracolo.

Poi i giorni hanno visto sempre di più la perenne “radio nostalgia” coi pezzi anni ’70 e ’80  e ’90 su cui ho finito i solchi dei vinili – “Ecco, sono loro”; “Quanto tempo… però che tiro!”; “Che mito il dark e che concerti, come mi sono divertito” – e qualche concessione al pop tanto sei solo e nessuno ti vede, il rock duro e puro dei Led Zeppelin. 

Placebo, ancora Placebo a tutto volume, Joy Division, Cure, Rem e via ballucchiando e muovendo la testa, Talking Heads, Smiths e gli altri, in un corto circuito con i ricordi dei viaggi e delle feste in cui erano immancabili e con le scoperte, tardive non c’è che dire, delle sinfonie di Beethoven.

Aver messo come compagnia sonora che allevia le lunghe, e dure, ore della clausura la meravigliosa “Pastorale” è un regalo inaspettato di Christiane – “Non la conosci? É la mia preferita. Si sente la meraviglia della natura”, e quanto ha ragione – seguito dalla terza, la quinta, la prima, la nona, unica che, complice i vecchi drughi di “Arancia meccanica” e Stanley Kubrick, avevo in testa.

La notte ha fatto da palcoscenico alla mia scoperta sinfonica, con la musica bassa bassa per non disturbare e le note poi a risuonare nel risveglio, dopo sonni agitati, nonostante il “va tutto bene, mi difendo”, collezionati nelle settimane inanellate tra le quattro mura. Classica e rock, qualche vecchia canzone italiana, passato remoto e passato prossimo e presente, intrecciati ai suoni della natura che – prima che sparissero nuovamente inghiottiti dal frastuono del traffico e della città – ho cercato ogni mattina passeggiando sulle colline fiorentine ma anche solo dietro casa a ora di cena quando c’è ancora meno gente in giro ed il cielo si incendia con il tramonto e motorini ed auto si annunciano da lontano con il loro rumore.

Ah, mica posso non dire di Pj Harvey, del  suo rock teso e sexy come lei ed apprezzato meglio grazie ad un’altra donna tosta che me la ha consigliata, dei Muse, di Nick Cave – ascoltato con il contagocce però, non è che sia allegro, anzi, e in questi tempi meglio evitare – dei Genesis che avrei messo all’infinito, perfino dei miei vecchi amici Emerson, Lake and Palmer.

Musica come viaggio anche nei ricordi… Un’era fa il viaggio in Francia da diplomati freschi freschi è stato anche gli Stray Cats, l’anno del militare ha martellato “All night long” di Lionel Richie che ho odiato con tutte le mie forze, l’occupazione della facoltà con la Pantera ha suonato soprattutto Smiths, quindi sono arrivati i Nirvana, gli Smashing Pumpkins ed i Pearl Jam, “Thank U” di Alanis Morissette che ricorda il 2000 è la morte del babbo che stranamente la adorava….

Poi il lavoro ha drasticamente ridotto lo spazio per la musica, permettendo incursioni di poche passioni e gruppi. E la pandemia da Covid-19 per me resterà anche una colonna sonora, costante. Un mosaico improbabile, lo ammetto, che tra dieci o venti anni mi colpirà all’improvviso con una canzone, un video al computer, uno scampanio all’orizzonte. Mi farà sobbalzare il cuore e mi riporterà  a situazioni e giorni ormai lontani; chissà con quali pensieri.