Testo di Irene Loddo
Foto di Giacomo Bruno
“Dicono che nella città di Potosì, al tempo del suo massimo splendore, perfino i ferri dei cavalli fossero d’argento. Nel 1658 le strade della città vennero disselciate dall’inizio fino alla chiesa di Recoletos per essere completamente ricoperte di barre d’argento. A Potosì, l’argento eresse templi e palazzi, monasteri e bische, fu motivo di allegria e di tragedia, sparse sangue e vino, accese la bramosia e scatenò lo sperpero e lo spirito d’avventura […] Da quando Pizarro si era impadronito Di Cuzco, il massimo elogio per persone e cose si riassumeva nella frase «Vale un Perù» ma a partire dalla scoperta del Cerro Rico di Potosì, Don Chisciotte della Mancia usa un altro linguaggio: «Vale un Potosì». La città, secondo un censimento del 1573, aveva centoventimila abitanti. Erano passati appena ventotto anni da quando la città era sorta tra gli altipiani andini e già aveva, come per virtù magica, una popolazione pari a quella di Londra e superiore in numero a quella di Siviglia, Madrid, Roma o Parigi. Verso il 1650, un nuovo censimento attribuiva a Potosì centosessantamila abitanti. Era una delle città più grandi e più ricche del mondo, con un numero di abitanti dieci volte superiore a quello di Boston in tempi in cui New York non aveva ancora questo nome. Le fertili miniere di Potosì vennero scoperte tra il 1545 e il 1558. La febbre dell’argento oscurò rapidamente quella delle miniere d’oro. A metà del XVII secolo, l’argento rappresentava oltre il 99% delle esportazioni di minerali dell’America spagnola. In quel periodo, l’America era soprattutto una grande bocca di miniera, imperniata su Potosì. Alcuni scrittori boliviani, infiammati da eccessivo entusiasmo, sostengono che la Spagna abbia ricevuto in tre secoli, da Potosì, metallo sufficiente a costruire un ponte d’argento dalla cima del Cerro Rico fino alla porta del palazzo reale, dall’altra parte dell’oceano. Tra il 1503 e il 1660 arrivarono nel porto d Siviglia 185.000 chili d’oro e 16 milioni di chili d’argento. L’argento trasportato in Spagna in poco più di centocinquant’anni superava di tre volte il complesso delle riserve europee: queste cifre non comprendono il contrabbando. I metalli strappati ai nuovi domini coloniali stimolarono lo sviluppo economico europeo; anzi, lo resero possibile. Neppure il peso che i tesori di Persia conquistati da Alessandro Magno ebbero sul mondo ellenico può essere paragonato alla misura del contributo apportato dell’America al progresso altrui. Non a quello spagnolo, certo, anche se le fonti dell’argento americano appartenevano alla Spagna, Gli spagnoli possedevano la vacca, ma erano altri a berne il latte.”
Così lo scrittore uruguagio Eduardo Galeano, nel suo celebre saggio Le Vene Aperte dell’America Latina, descrive il massiccio sfruttamento delle risorse minerarie del Cerro Rico, cono perfetto che svetta tra le cime delle montagne e che, con la sua altezza di 4782 metri e le sue cangianti sfumature rossicce, fa ombra a Potosì, la città più alta al mondo. Nonostante sia piena estate l’aria è fredda mentre guido la mia jeep per arrivare in quel cucuzzolo di città, cuore d’argento della Bolivia. Il vento soffia leggero e una moltitudine di alpaca mi scruta mentre varco le porte della periferia della città. La polvere si alza ovunque e il motore 3500 a benzina inizia ad accusare la pendenza sempre più accentuata della strada. Arrivati in cima ad un’altura Potosì si apre davanti agli occhi, per la prima volta respiro la vera Bolivia. La città dall’alto ha uno strano clima, è circondata da una magica bruma che la cristallizza nel tempo. Sembra immobile, vuota, silenziosa nella sua miriade di case piatte, tutte uguali e tutte diverse. L’unico rumore che sento in lontananza è lo sferragliare di macchine e camion che trasportano materiale da cantiere e minerali. Il Cerro Rico sembra essere il burattinaio che tende i suoi fili argentati per smuovere marionette che tossiscono foglie di coca bruciate, nere come le mani che impugnano la scure utile a spaccare la roccia tra i labirinti tenebrosi delle miniere.
Appena ci si immerge nella città che oggi conta 167.000 abitanti, se ne scopre però il tiepido calore: le vie sono strettissime, le macchine ci passano a malapena, ovunque Cholitas variopinte davanti ai loro banchetti vendono le cose più disparate: chips fatte in casa, calzini, cover di telefoni di provenienza cinese, cappelli, amuleti, caramelle e sigarette. Quelle che guadagnano di più sono un gruppo ristretto di donne elette che fa sfrigolare sottili straccetti di carne di lama insieme a delle patate su una griglia intorno alla quale uomini e donne attendono pazienti il loro piattino succulento. Sono queste donne che fanno girare l’economia gastronomica della città. Ma un altro tipo di economia è di particolare interesse: girando per le minuscole viuzze, ogni due o tre negozi, c’è un’agenzia che organizza tour nelle miniere. A Potosì l’attenzione è tutta rivolta alle miniere, prese d’assalto da ignari turisti che le vedono come un’occasione d’argento per scattare qualche foto sotterranea senza sapere di quanto dolore sono pregne le pareti dei cunicoli.
La storia delle miniere boliviane è incisa con il sangue di milioni di persone che lavoravano e morivano in quelle miniere: persino gli spagnoli si riferivano a Potosí come alla “bocca dell’inferno”. L’economia della Bolivia è sempre stata dipendente dall’estrazione e l’esportazione di risorse naturali non trasformate (metalli e minerali, e recentemente gas naturale) . Dal punto di vista economico-politico, questa strategia di sviluppo nota come estrattivismo è molto comune tra i paesi dell’America Latina ed è generalmente supportata da politiche neoliberali, che hanno dato potere alle élite e alle multinazionali, riducendo il potere dello stato. Uno spostamento di questi equilibri geopolitici è avvenuto nel 2006, quando il neo-eletto governo boliviano ha implementato nuove strategie basate sulla nazionalizzazione dell’estrazione di risorse naturali (“post-neoliberalismo” o “contro-neoliberalismo”) per ottenere il controllo delle industrie estrattive al fine di diversificare il sistema economico nazionale e rafforzare le forme produttive comunitarie. Nonostante questo spostamento “contro-neoliberista”, la governance delle risorse della Bolivia non ha portato a una riduzione dell’estrattivismo, ma piuttosto alla sua espansione, che è stata anche guidata da una crescente domanda globale. Per quel che riguarda ad esempio la spinosa questione dell’estrazione di Litio, l’oro bianco utile a produrre batterie “più ecologiche” e a lunga durata, il presidente Evo Morales, in un annuncio che risale al 2010, dichiarò di non voler accettare “invasioni” di imprese transnazionali, scegliendo di produrlo in proprio: «Il nostro litio sarà gestito e prodotto integralmente dalla Bolivia», che metterà sul tavolo 698 milioni di euro, finanziati dalla Banca Centrale. Una nazionalizzazione che gli consentì di incassare una vittoria plebiscitaria nelle elezioni presidenziali. Per il paese latino-americano, senza sbocchi sul mare e con una grande povertà diffusa, si tratta di una risorsa energetica assolutamente strategica, capace di condizionare l’elezione o rielezione di un presidente. Dopo più di dieci anni, quindi, l’economia della Bolivia è ancora più dipendente dalle esportazioni di materie prime: dal 2005 al 2015 il contributo del settore primario al PIL boliviano è passato dal 21,6% al 24,5%. Le attività minerarie e soprattutto la forza lavoro, i minatori, sono quindi una parte fondamentale dell’identità nazionale: non è un caso che la miniera del Cerro Rico di Potosí sia stata scelta per essere disegnata sulla bandiera boliviana come simbolo nazionale.
I minatori in Bolivia sono suddivisi in tre categorie: minatori che lavorano per le Cooperative Autonome, i minatori che lavorano per la COMIBOL (Corporación Minera de Bolivia) ente statale che si occupa della gestione delle miniere, e i minatori che lavorano per le grandi multinazionali dell’estrazione. Nonostante nel 2011 il mining cooperativo abbia impiegato 60.067 lavoratori, essi hanno contribuito solo al 31% della produzione nazionale e all’8,5% delle entrate fiscali, mentre il settore privato (multinazionali) con solo 4.650 lavoratori ha prodotto il 60 % di minerali in Bolivia, con il contributo dell’89,5% delle entrate fiscali. Nelle Cooperativa Autonome i lavoratori sono quindi molto più numerosi rispetto a quelli nelle grandi aziende transnazionali. Ma come mai c’è una discriminante così alta tra la produttività dei minatori che lavorano per le Cooperative Autonome e quelli che invece vengono assunti dalle multinazionali e come mai nonostante il numero ridotto di impiegati queste ultime estraggono molto di più? Quali sono le differenze di trattamento tra i minatori assunti dai tre diversi enti?
Intanto bisogna fare una precisazione: le Cooperative Autonome esistono da sempre ed è impossibile scioglierle per la loro rilevanza storico-culturale, assolvono la funzione di dare lavoro a moltissime persone ed è lo stesso stato ad aver bisogno delle Cooperative Autonome prima di tutto per sopperire al forte tasso di disoccupazione che attanaglia la Bolivia e in secondo luogo perché tutti i minatori che lavorano nelle Cooperative fanno anche parte dell’Unione dei Minatori, ovvero il secondo gruppo di sostegno del governo dopo i Cocaleros, i coltivatori di foglie di Coca; il governo ha quindi bisogno delle Cooperativas Mineras proprio per rafforzare il proprio potere. Per quest’ultimo motivo le Cooperative pagano pochissime tasse (1.9%) e anche per questo moltissimi minatori preferiscono lavorare per le Cooperative piuttosto che per la COMIBOL o le multinazionali, oltre al fatto che non devono sottostare a un capo o a regole ferree, possono andare a lavorare con i loro compañeros e soprattutto, potrà sembrare curioso ma in realtà è piuttosto rilevante, possono bere alcolici mentre lavorano. Coloro che lavorano nelle Cooperative non hanno uno stipendio fisso al mese, guadagnano in base a quello che estraggono. Di contro non hanno assicurazione medica e loro stessi non investono nella sicurezza e nelle attrezzature utili ad estrarre i minerali riducendosi quindi a lavorare in condizioni disumane. Estraggono molto poco a causa delle attrezzature inefficienti ma anche perché lo stato gli concede solo miniere in via d’estinzione come il Cerro Rico di Potosì che da anni è a rischio di crollo, quasi privo di minerali al suo interno e ormai abbandonato dalle multinazionali.
La COMIBOL è invece un’impresa statale vera e propria ed è quindi capace di assumere molte più persone rispetto alle cooperative che, in teoria, legalmente non potrebbero assumerne più di certo numero; deve rispettare delle norme ecologiche precise al contrario delle cooperative , i minatori hanno turnazioni precise da rispettare e vengono pagati fissi al mese (circa 5200 BS). C’è da dire che le miniere nazionalizzate in Bolivia sono pochissime, Huanuni e Colquiri, e la COMIBOL ha più un’importanza storico-politica (rivoluzione nazionale del 1952), utile a far ricordare alle persone che la Bolivia ha riconquistato la sovranità del suo stesso paese e delle sue risorse naturali non più deliberatamente espropriate dagli stranieri come è successo per secoli.
La più grande impresa transnazionale in Bolivia, invece, è quella di San Cristobal, vicino ad Uyuni, sotto il patrocinio dei giapponesi della Sumitomo ed è la maggiore estrattrice d’argento del mondo grazie anche alle attrezzature d’avanguardia che utilizzano. I dipendenti delle multinazionali hanno uno stipendio fisso al mese molto buono (7000/10000 BS) e le aziende garantiscono la completa assistenza sanitaria ai loro dipendenti. Di contro per i minatori è molto difficile essere assunti all’interno di una miniera gestita da una multinazionale perché i criteri di selezione sono molto rigidi, devono rispettare turnazioni precise e sottostare al volere del capo, devono utilizzare attrezzatura che di solito non sono abituati ad avere e tra le altre cose non possono bere né perpetuare i riti cosmologici a cui sono molto legati e che si tramandano da generazioni.
Un aspetto centrale per la vita dei minatori cooperativisti è appunto la cosmologia insita nella loro vita all’interno delle miniere. I minatori hanno due vite: una esterna con le loro famiglie e l’altra all’interno della miniera con i loro compagni (compañeros), a cui corrisponde due cosmologie differenti. La prima è dedicata alla Vergine del Mineshaft (Virgen del Socavón) – identificata anche con la Pachamama – che si trova sulla cima della collina nella cappella di Oruro, mentre nella miniera il sovrano è il Tío (zio): Tio è lo spirito ed il proprietario della miniera e dei minerali, ed è è rappresentato con statue che ricordano la figura di un diavolo. Anche se variano per caratteristiche e dimensioni, le statue di Tío sono generalmente a grandezza naturale, con un corpo rossastro, enormi occhi sporgenti, un membro sessuale prominente e con varie chuspas (borse tessute con lana colorata) che pendono da esso. Anche se l’idea del diavolo è stata importato dagli spagnoli, il Tio è sempre stato presente all’interno della montagna, non è considerato come il male ma piuttosto come un potente alleato che si occupa dei minatori portandogli fortuna se correttamente compiaciuto. Il rapporto tra i minatori e la Tio si basa su uno scambio di doni: i minatori decorano la statua con foglie di coca, sigarette e alcol in cambio di metalli e minerali. Inoltre, due volte l’anno – il Venerdì prima di Carnevale (Venerdì del ch’alla) e il secondo del mese di agosto, il giorno della Pachamama – i minatori lo adornano con serpentine e preparano un altare per le loro offerte, dove, oltre a foglie di coca, sigarette e alcool, gli danno il sangue e il cuore di una lama (rituale Wilancha). In questo modo, il Tio non chiederà il loro sangue durante l’anno.
I minatori hanno stanchi volti segnati; persino i bambini sembrano avere rughe nere sporche di polvere. La Bolivia ha un milione di bambini e adolescenti lavoratori e il 50% di questi ha un’età inferiore ai quattordici anni. Moltissimi di loro sono impiegati all’interno delle miniere e si aggirano intorno alle boca minas (ingressi delle miniere) con i loro vestiti polverosi, caschetti malandati e piccole mani sporche di terra; lavorano, vivono e giocano nei pressi della miniera. Tre bambini di al massimo dieci anni spingono uno dei carri arrugginiti utili a trasportare i minerali e, pensando che sia un’astronave, con la fantasia si fanno beffe della loro stessa sventura. Velocemente quella leggerezza infantile si trasforma in una agghiacciante serietà e, guardandomi con i loro occhi neri profondi come i cunicoli delle miniere, mi spiegano come comportarmi all’interno dell’unica realtà che conoscono, quella del labirinto minerario. Molti di loro sono orfani, hanno perso il padre in uno dei tanti incidenti disastrosi del Cerro Rico che, in bilico da anni, frana in continuazione. Parlano di prendersi cura della loro famiglia, comprendono fin troppo bene il valore del denaro. I bambini lavorano nelle miniere perché ne hanno bisogno, hanno bisogno di mangiare, di sostenere quel che rimane della loro famiglia e di pagarsi gli studi, unico modo per avere una via d’uscita, ben lontana dall’entrata della miniera.
Oltre alla tragedia umanitaria che le miniere portano con sé, condita da orfani, povertà e morti, è anche importante ricordare il forte impatto negativo che hanno sull’ambiente: la degradazione ambientale è un tema molto attuale in Bolivia soprattutto quando si tratta di contaminazione e scarsità dell’acqua. L’eredità tossica dell’estrazione mineraria in Bolivia – tanto quanto in tutta la regione andina – è una realtà ben nota che ha colpito i suoi abitanti sin dal tempo coloniale, quando i lavoratori indiani e africani iniziarono ad impiegare per raffinare l’argento tecniche basate sulla fusione del mercurio. Soprattutto a Potosí, 39.000 tonnellate di mercurio vaporizzato sono state rilasciate tra il 1574 e il 1810, causando la morte di milioni di lavoratori nelle fabbriche di raffinazione dell’argento tanto quanto degli abitanti circostanti. Accanto a inquinamento da mercurio, l’estrazione mineraria ha causato effetti irreversibili sulla flora e sulla fauna locali modificando l’ambiente, intensificando la deforestazione, cambiando l’alcalinità del suolo e mettendo sotto forte pressione le risorse idriche.
Le due più grandi miniere boliviane sono Huanuni (nella regione Oruro) che consuma oltre 28 milioni di litri di acqua al giorno e la miniera di San Cristobal che consuma più di 45 milioni di litri al giorno, di cui abbiamo parlato in precedenza. Questa cospicua esigenza idrica da parte delle miniere lascia le comunità senza la quantità necessaria di acqua per irrigare le loro colture, in una regione, quella andina, in cui le condizioni geologiche e climatiche sono già piuttosto difficili. In conseguenza allo sfruttamento eccessivo delle risorse idriche i due più grandi laghi della valle di Huanuni, Uru-Uru e Poopo, sono stati pesantemente colpiti con la conseguente desertificazione completa nel 2016 del lago Poopó, il secondo lago più grande della Bolivia dopo il celebre Titicaca.
È però l’acqua inquinata ad essere uno dei più grossi problemi: le moderne tecniche minerarie, nel trattamento della materia prima, utilizzano svariate sostanze chimiche le quali vengono rilasciate direttamente nei corpi idrici. Metalli pesanti come piombo, arsenico, cadmio, ferro e zinco sono fortemente presenti nelle acque della zona che circonda quel che rimane del lago Poopó e sono causa di gravi problemi di salute alla popolazione: i casi di cancro sono in aumento, soprattutto tra i bambini e le donne.
A Potosí la situazione è molto simile. Le persone sono ben consapevoli che non devono bere l’acqua del rubinetto ed è la prima cosa che raccomandano appena si mette piede in città. Potosí ha un ottimo sistema idraulico costruito dagli spagnoli fatto con 32 lagune artificiali, il Kari-Kari, che fornisce acqua a tutti i quartieri; la compagnia nazionale dell’acqua non ha quindi dovuto costruire nulla perché la città era già fornita di un buonissimo impianto idrico. Il problema oggigiorno è che queste lagune si stanno ad una ad una prosciugando e inquinando, replicando la tragica situazione verificatasi a Poopò. Il più grande paradosso che emerge parlando con gli abitanti della città è che, anche se essi stessi sono a conoscenza del peggioramento irreversibile della condizione dell’acqua, credono che le loro città non possa esistere senza la miniera. Quando si parla con le persone tra le strette claustrofobiche viuzze o nel caleidoscopico mercato, il sentimento complessivo che si percepisce è un totale senso di rassegnazione in quanto non si hanno soluzioni per questo problema specifico, ma piuttosto sono le persone stesse che hanno imparato come regolare la loro vita in base alla penuria d’acqua.
La rassegnazione è però bilanciata dalla visione di un utopico futuro lontano ricco d’acqua pulita, bambini che studiano invece che andare a lavorare in miniera e un’economia nazionale non più basata sull’estrazione di minerali.
Si spera che le cose cambino e che succeda coma a El Salvador dove, nel 2017, il governo ha approvato una legge che vieta l’estrazione di metalli dal sottosuolo e mette al bando le miniere in tutto il paese. È stata una decisione notevole, perché El Salvador è diventato così il primo paese al mondo a emanare una legge che impedisce qualunque attività estrattiva al fine di salvaguardare le riserve idriche. Secondo alcuni dati relativi al 2014 e attribuiti al ministero dell’ambiente e delle risorse naturali del Salvador, il 90% dell’acqua di superficie del paese è inquinato mentre secondo la Banca Mondiale il 20% della popolazione non ha accesso a fonti idriche pulite. Le risorse idriche della Bolivia potrebbero ritrovarsi nella condizione di quelle El Salvador in pochi anni: non è necessario che la situazione precipiti a tal punto, basterebbe ci fosse una volontà politica capace di invertire il senso di marcia col fine di anteporre le persone all’economia. Ma nel sistema capitalistico in cui viviamo è molto difficile e le menti più illuminate vengono spesso zittite piuttosto che essere sapientemente ascoltate.
Un ex-minatore vestito di nero mastica coca sulle scalinate subito sotto l’Arco de Cobija, nel centro della città. Le sue mani sono tozze, le unghie sporche di verde, ai piedi stivali pieni di fango, non ha più quattro denti e tossisce in continuazione; davanti a sé tiene un caschetto per chiedere l’elemosina e a fianco un Charango scordato, l’ultimo rimasto tra i suoi compañeros. Con lo sguardo perso all’orizzonte dove il Cerro Rico svetta davanti ai suoi occhi, con un sommesso tono profetico dice: «Un día pelearemos nuevamente por l’agua», un giorno, a Potosì, combatteremo di nuovo per l’acqua. La gente combatte ogni giorno dentro e fuori dalle miniere ma un giorno, in Bolivia, si lotterà spietatamente per un bene più prezioso di qualsiasi metallo e lacrime d’argento fuso scenderanno sulle gote arrossate dell’altopiano andino, sostituendo per sempre la verde acqua cristallina dei suoi fiumi e dei suoi laghi.