Testo e foto di Francesco Sandri

Era luglio e splendeva il sole a Potočari, sette chilometri a nord di Srebrenica, quando si compiva uno dei più grossi fallimenti della comunità internazionale. Eppure l’estrema inumanità di quei dieci giorni, venticinque anni fa, può farli facilmente immaginare umidi e gelidi, come il clima che oggi fa risuonare l’eco della pioggia nelle enormi sale vuote della vecchia base dell’UNPROFOR, la missione ONU che avrebbe dovuto proteggere i civili della “zona sicura”. Ma così non è stato. La memoria dell’estate ’95 è ora affidata alle migliaia di lapidi bianche che, come soldatini, rimangono in file ordinate a presidiare silenziosamente la vallata.

Ma Srebrenica, seppur lamentando ancora ferite troppo profonde per cicatrizzare in un quarto di secolo, non è solamente il simbolo della parte più oscura dell’umanità. “City of Hope”. Così la vuole vedere oggi Irvin. Gli orrori della guerra e il nuovo inizio da bambino, da rifugiato, in Val Camonica lo hanno tenuto troppo tempo lontano dalla terra dove è nato. Così da tre anni ha deciso di tornare in queste valli di torrenti sonori che corrono verso la Drina, di sentieri tra i boschi di faggi, di cavalli dagli occhi saggi. Nella sua piccola casa, alla luce tremula delle candele, si respira il desiderio di riportare alla luce le bellezze semplici e romantiche di una vita al contatto con la natura, al sapore di goulash e profumo di tabacco.

Queste sue passioni sono profondamente condivise anche da Emin. La sua enorme barba bianca, che nasconde per metà le rughe, si tinge in alcuni punti del colore terrigno del fumo lasciato da decenni di sigarette sempre accese, come piccoli incensi che gli spuntano da sotto i baffi. Anche lui ha passato decenni separato dalle dolci colline di Srebrenica, lavorando nelle miniere di carbone tedesche. Ora si prende cura dei suoi 18 cavalli e passa i pomeriggi a suonare il saz, seduto su pelli di pecora alla luce nebbiosa di una grande finestra. Il profumo tostato del caffè preparato da Sabina, sua moglie, si espande dalla cucina e si mescola a quello cerimoniale del tabacco locale. È considerato il capo della comunità bogomila di questa zona; l’ultimo strascico di un’antica tradizione religiosa ritenuta eretica dalla chiesa cristiana e da quella ortodossa, decimata dall’inquisizione e dal proselitismo islamico. Rifiutando gli schemi e i vincoli imposti dalle gerarchie ecclesiastiche e statali, cosa che gli ha comportato non pochi problemi, i bogomili professavano un contatto diretto con la divinità e un rapporto intimo con la natura.

Questa essenza del bogomilismo si può ancora facilmente intuire risalendo i pendii che circondano la città, gli stessi che furono partecipi di una pagina di storia tanto amara, ma dove, ora che si è sciolta la neve, fioriscono i progetti di vita di chi vuole far tornare a Srebrenica un’aria di normalità insieme al giallo timido delle primule.