Testo di Marina Ialovic

La cicala di Belgrado è il racconto della città dove sono nata e dove ho vissuto fino ai miei 18 anni. Si tratta di un racconto personale, della decisione di andarsene dal proprio luogo di origine, che cerco di intrecciare con un viaggio per le strade della città raccontando i luoghi, le persone e i fenomeni che non esistono più ma che sono tutt’oggi significativi per la sua identità.

Il cuore del racconto è il mio quartiere Chubura: il lato trasandato, sotterraneo, per alcuni aspetti lurido del centro città che rivendica la sua anima bohémien. La nicchia della nicchia del quartiere Vračar. Lontana dai giri turistici e anche dai caffè alla moda. Lo racconto attraverso le sue kafane, trattorie tipiche del quartiere. Alcune sono state abbattute negli ultimi anni: Kikevac, ČChuburska Lipa, Sokolac. Stara Srbija. Il libro si pone come obiettivo quello di raccontare la storia dei luoghi che non esistono più ma che potrebbero essere di interesse per un potenziale visitatore della città.

Racconto Belgrado andando in giro, soprattutto in bici, con la mia migliore amica Kristina negli anni Novanta che hanno segnato la nostra adolescenza. Da Chubura andiamo a Nuova Belgrado che consideravamo sempre una città a sé stante. Il quartiere simbolo di “bratstvo i jedinstvo”, “fratellanza e unità”: è il primo quartiere che ogni visitatore della capitale serba incontra lasciando l’aeroporto alle spalle. Lo spiego come il risultato di ORA, Omladinske Radne Akcije, le azioni lavorative della gioventù, che appartenevano all’idea socialista dopo la Seconda guerra mondiale, dove la cittadinanza più giovane partecipava attivamente nella ricostruzione economica, architettonica, scientifica, culturale, sportiva del paese. Tutti coloro che ne facevano parte costruivano, letteralmente, i nuovi quartieri delle città in tutta la ex Jugoslavia.

Belgrado oggi è inoltre il luogo che custodisce le “rovine del futuro” ovvero l’architettura jugoslava conosciuta come “realismo socialista”. Alcuni dei lasciti di quest’epoca sono ancora incorporati nei kiosk iugoslavijugoslavi, fatti di plastica, spesso di color rosso conosciuti come i K67,, sono prodotti negli anni ’70 Settanta dalla fabbrica Imgrad, nella provincia slovena. I K67 si trovano abbandonati per le strade di Belgrado, simili ai resti delle cabine telefoniche in Italia. Per quanto potessero sembrare gli elementi principali del cosiddetto retrò futuristico, non erano sono mai stati adatti alle condizioni igieniche della città. Accanto ai chioschi, porto il lettore in giro raccontando i palazzi tipici di questo tipo di architettura.

Il viaggio prosegue sulle rive dei fiumi, Sava e Danubio – le due arterie principali della città. Le sponde le raggiungo grazie ai giri in bici con la quale arrivo anche negli altri quartieri significativi: Karaburma, Dorcol, il centro della città e la strada Knez Mihajlova nonché la sua parte più austroungarica: il quartiere Zemun.
Ho deciso inoltre di raccontare i luoghi attraverso i fenomeni socio-culturali come gluvarenje “i perdigiorno”, la paura della corrente, la superstizione. Mi avvicino ai lasciti jugoslavi custoditi anche nei nomi delle piazze come Slavija e nelle strade di Belgrado.

La cicala di Belgrado racconta anche il continuo cambiamento urbanistico della città. Soprattutto, dedico spazio al nuovo quartiere del centro che divide la città e ancora una volta i suoi cittadini: alcuni lo amano, gli altri lo odiano. Belgrade Waterfront è la Nuova Belgrado 3.0 in veste araba anche perché uno dei maggiori investitori dnel progetto è una ditta proveniente dagli Emirati Arabi Uniti. Visto come un ulteriore tassello necessario per la modernizzazione della città, solca ancora di più le due transizioni principali: dall’impero allo stato nazione e dal socialismo al capitalismo.
Ma La cicala di Belgrado è soprattutto un libro personale che racconta la capitale serba nel suo periodo più doloroso e demonizzante: il decennio del regime di Slobodan Milosevic.