Testo di Angelo Floramo

“La veglia di Ljuba” è una storia di terra e di frontiere. Un racconto che si frastaglia nella linea spezzata, disordinata e complessa di quello che gli storici chiamano “il confine orientale” in un arco di tempo che dura quanto la vita di un uomo. Bastante però a farne percepire la meraviglia e il dramma perché il periodo doloroso e crudele che racconta prende le mosse dal ventennio fascista, seguito dalla ferocia della guerra, dalle sanguinose lacerazioni del dopo, fino a bordeggiare gli anni del nostro vivere contemporaneo. Il filo della narrazione infatti si dipana sull’orlo di molte cose, disegnando topografie inattese capaci di innervarsi nei paesaggi in cui le vicende diventano vita, ma anche in quelli più intimi, profondi e interiori, dove la coscienza è terra fertile per l’utopia. Sveto è un piccolo paese sloveno incastonato lungo l’altopiano carsico che congiunge Gorizia a Trieste. Le sue case di pietra, i muretti che delimitano una terra povera e durissima da coltivare, buona soltanto per cavoli, verze e patate, assomigliano alle facce di chi ci vive.

Lontano, da qualche parte, c’è l’Adriatico. Lo si avverte perché il suo respiro arriva in certe mattinate di pioggia, o con i primi aliti salati della primavera. Cielo, terra, mare, orti, vigne, sassi: insieme tracciano una rete di impercettibili sentieri, percorsi dai vivi e dai morti nell’immaginario delle genti che vi stanno aggrappate, succhiando quel po’ di miseria che distillano dall’immane fatica. Quando il Regno d’Italia arriva fin quassù, alla fine del primo conflitto mondiale, procede ad una politica di inflessibile snazionalizzazione del sostrato sloveno, cancellandone le memorie perfino dalle lapidi dei cimiteri, imponendo una ridicola – non fosse atroce – traduzione dell’onomastica e della toponomastica, per cancellare dalla terra la memoria di tutte quelle generazioni che l’avevano abitata e che italiane non erano mai state. Il Fascismo non fa che peggiorare la situazione, incattivendosi contro una resistenza che nasce spontanea, spesso combattuta da silenziose maestre, ostinate precettrici clandestine di una lingua proibita, libera e anarchica come il vino che si spreme, aspro e profumatissimo, dalle vigne legnose che qui resistono alla Bora e al gelo dei lunghissimi inverni.

A Sveto, che gli italiani ribattezzano Sutta, nasce il protagonista, il Nini, portandosi dentro fin da subito la ferita della differenza e dell’alterità, perché suo padre, Ninuzzu, è un ferroviere socialista siciliano cacciato dal Regime nelle “terre lontane” perché ostile al pensiero del Duce, irriducibile libertario che ritrova, nella dignità di quel mondo apparentemente tanto diverso dalle sue origini, una simile voglia di opposizione. E’ inevitabile che suo figlio, sulla cui vita si imbastisce il racconto, nasca già attraversato dalle linee di infinite frontiere: culturali (è anche il figlio della maestra in un villaggio di semplici contadini e pastori), linguistiche, ideologiche. Il capitolo dedicato alla guerra partigiana apre abissi di geografie che si dilatano immani come un uragano, la cui furia urla tutto attorno a queste contrade: i partigiani del maresciallo Tito, che provengono dalla pancia profonda della Jugoslavia, con le loro facce, i loro canti, gli accenti esotici e lontani, si contrappongono agli italiani fascisti, alle truppe del Terzo Reich, ai cosacchi russi filonazisti, ai collaborazionisti sloveni, ai Cetnici Serbi, agli Ustaša Croati. Si trasformano, nello sguardo incantato del bambino, in genti favolose, portatrici di un’alterità assoluta. La fine di tanto orrore non risparmia ulteriori straniamenti: nuovi confini vengono tracciati, si alzano muri altissimi (quelli ideologici anche più alti di quelli di cemento), si srotolano chilometri di filo spinato, si mettono soldati armati a guardia di una terra dalla quale è necessario partire.

Il senso di anomia, di non appartenenza, la condizione di apolide accompagna negli anni il giovane protagonista che diventa esule prima in un campo profughi a Trieste e poi in un manicomio a San Daniele del Friuli: altre lingue (il friulano), altri accenti (l’umanità minore, reietta e dimenticata), altre storie si impastano nella trama di una vita che nell’erranza dettata dall’utopia troverà nella complessità delle sue geografie, esteriori o esperite, la mappa sulla quale disegnare il segno del suo passaggio, la traccia e la cifra del suo umanissimo andare.