Testo e foto di Francesco Sandri
Decine di gallerie affondano nel ventre dell’Appennino; segnano nettamente il distacco tra noi e la città dai tramonti ocra. Oltre di loro comincia già a stendersi la pianura Padana, piatta lamina che esplode di verde sotto i raggi di luglio. Scorre veloce oltre il finestrino, sempre uguale per ore, quasi a volerti far perdere l’orientamento tra i suoi campi di soia e mais.
Immagino i binari brillare sotto di me, lucidati da tutti i treni che ogni giorno sfrecciano verso Firenze. Ma sono l’unica a farlo. Il ragazzo che mi siede accanto è silenzioso, ha l’aria malinconica e gli occhi gettati oltre la linea dell’orizzonte, come si fa quando si vuole sprofondare in ricordi troppo vicini per essere guardati con indifferenza. Insieme l’abbiamo pedalata a lungo quella Firenze lasciata alle spalle, quando ancora vivevamo lì. Lui con le mani strette sulle mie manopole, io con le ruote sull’asfalto ruvido che mi faceva il solletico. Lui a spingere coi polpacci, io a trattenere il fiato nelle camere d’aria. Gli sono grata per avermi portata ancora una volta con lui volare tra i ponti sull’Arno, dopo due anni passati lontana dalla mia città natale, a macinare salite tra le sue montagne friulane.
Mi ha scelta come compagna di viaggio. Disse che ero l’unica a poterlo accompagnare in quest’ultimo spostamento in direzione sud-ovest. Nessun treno, niente autobus. «Per una volta voglio godermi tutto quello che c’è nel mezzo» mi confidò, caricando la tenda e il sacco a pelo sul portapacchi. Così partimmo. Di fronte a noi la strada, sconfinata distesa di terra. Molta più di quella a cui ero abituata nei miei brevi spostamenti giornalieri. Ce l’avrebbero fatta i copertoni a reggere per quattrocento chilometri? E se mi fosse venuto il mal di pedali a metà strada? Ma lui non mi lasciò tempo per pensarci troppo. Ingranando la quinta si gettò a capofitto verso ponente, tra gli argini salmastri che costeggiano il litorale adriatico.
Ci fermammo a riprendere fiato solo quando il tramonto ci raggiunse a Pellestrina, isola stretta da un abbraccio di mare e laguna, lunga schiera di case colorate e profumo di alghe. Nel silenzio diffuso i bambini si tuffavano a fianco dei pescherecci, gli anziani sedevano coi baffi sudati all’ombra delle calli e le tende ondeggiavano appese ai portoni di casa.
Sono gli stormi di gabbiani a scandire il tempo sulle isole. Si alzano insieme in volo turbinoso e stridulo quando il sole si getta nell’acqua, per sentirsi meno soli quando l’oscurità bussa alle porte, e ripetono lo spettacolo quando lo vedono spuntare tra le onde increspate. Vogliono ringraziare l’alba per arrivare ogni giorno; per ricordare loro che esiste la vita dopo la notte.
Fossi nata gabbiano avrei volato con loro, ma ho due ruote e nessuna ala. Il ragazzo mi guardò sognare, finché non mi fece quel cenno che conosco fin troppo bene. Era ora di ripartire, il delta del Po ci aspettava. Valli, canneti, ponti di barche, tamerici, fenicotteri. Dove mi stava conducendo questo matto pedalatore? Se avesse lasciato fare a me, l’avrei condotto immediatamente a destinazione. Ma lui no, testardo come pochi, sembrava quasi felice di allungarci la strada in quel dedalo lagunare. Ciliegina sulla torta, sbattemmo addosso a un vento ostinato e contrario: uno di quelli che si appendono al portapacchi come un’ancora piantata nell’asfalto.
Solo verso sera riuscii a riappacificarmi con l’apparente masochismo del ragazzo. Sotto le nuvole di zanzare di Comacchio mi spiegò i piaceri del lento viaggiare. Ascoltai le sue parole e mi parve di sentire di nuovo l’aria scivolarmi dolcemente sul manubrio, il sole brillare tra i raggi, la bellezza entrare nel fanalino anteriore per non uscirne mai più. Forse dietro i suoi occhi grigi nascondeva meno follia di quella che pensavo.
La fretta scomparve dai miei ingranaggi e cominciai a sentire un contatto più intimo tra il mio battistrada e il nostro ondulato percorso. La campagna scottava ai nostri lati e le pesche maturavano nei frutteti riempiendo l’aria col profumo d’estate. Passando per Anita leggevo i nomi a cui erano dedicate le strade e mi trovavo a ripensare alle mie antenate: una stirpe di biciclette partigiane che un tempo solcarono le stesse strade insieme alle loro fedeli compagne, trasportando armi, messaggi e speranza. Ruote coraggiose le loro.
Poi d’improvviso qualcosa cambiò. Un rapido scatto del polso e mi trovai imbrigliata in marce basse, da fiato corto. Cominciava la salita. L’Appennino apparse di fronte a noi come una muraglia verdeggiante, densa di borghi e leggende che si nascondono tra i faggi. Sentii la spinta delle sue gambe farsi sempre più faticosa e le gocce di sudore cadermi sul telaio. Era arrivato il mio turno di infondergli fiducia; con le ultime forze riposte nei pedali riuscii a vincere la pendenza e portarlo al passo della Colla di Casaglia prima che si desse per vinto.
Alla fine della scalata fu il Mugello a premiarci, con la sua ospitalità leggermente affumicata che sa di castagne secche. Nell’oscurità resinosa di un vecchio podere ascoltai il bosco d’abeti ululare con le raffiche di vento notturne. Le stelle riempivano il nostro cielo e a me sarebbe piaciuto rimanere, ma eravamo a un passo dalla meta. Discesa e ancora discesa. Ci può essere altro sinonimo di felicità per quelle come noi? Mi sembrava di volare, veloce, leggera come non lo ero mai stata. Sarà forse così che si sentivano quei gabbiani a Pellestrina?
E infine fu la città dai tramonti ocra a stagliarsi di fronte a noi in tutta la sua maestà. Eravamo arrivati. Ma gli occhi del ragazzo si tingevano già di malinconia. Forse avrebbe voluto rimanere ancora un po’ sulla mia sella. Forse non era ancora pronto a dare quelle pedalate che avevano il sapore di qualcosa che finisce. A congedarsi da quel posto che per un momento pensò fosse suo, ma non lo era già più.
Scorrono veloci i binari del treno sotto di noi. Il ragazzo mi guarda attraverso il riflesso del finestrino. Per un attimo sorride e mi sfiora il parafango con la punta delle dita. «In fondo possiamo tornarci quando vogliamo, no?» mi sussurra, quasi a voler convincere sé stesso di una verità a cui crede per metà. Vorrei dirgli che le mie ruote saranno sempre pronte a correre con lui. Ma non lo faccio. Noi biciclette sappiamo quando è il momento per un silenzio, e credo che per ora lui abbia solo bisogno di gettare gli occhi oltre l’orizzonte e nuotare nei suoi pensieri dolceamari.