Testo di Laura Lenci
Foto di Doris Alberti


Quando penso ad Ermanno Olmi due sono le cose che mi sovvengono per prime: la sua stretta amicizia con Mario Rigoni-Stern e il fruscìo delle foglie nel Bosco vecchio da lui immortalato nel film del 1993. I faggi e gli abeti del Cansiglio rendono il bosco molto più che un insieme di alberi e piante. Il Bosco Vecchio è una dimora di sensazioni, un pullulare incessante della Natura in tutte le sue forme. Ma ecco che scendendo di latitudine, si incontra un altro paesaggio altrettanto caro ad Olmi, quello della pianura non meno affascinante e denso di significati.

La pianura padana è paesaggio di sperimentazione neorealista da Visconti a Rossellini, da De Sanctis a Lattuada (Ossessione, 1943; Paisà, 1946; Caccia tragica, 1947 e Riso amaro, 1949; Il mulino del Po, 1949) solo per citarne alcuni, ambientazione della nouvelle vague di Bertolucci e Bellocchio, ma anche sfondo di scontro politico nella commedia all’italiana ispirata ai romanzi di Giovannino Guareschi. La pianura alluvionale si allarga alle spalle di Gelsomina nella Strada (1954) di Fellini, ma non è solo fondale. È concreta, densa, un conglomerato per dirla con le parole di Zanzotto, è personaggio ammaliatore essa stessa: da Gente del Po (documentario del 1947) a Deserto rosso (1964) ad Al di là delle nuvole (1995) la pianura è la landa desolata da cui Michelangelo Antonioni prende le distanza ma che lo richiama come un canto di sirena: «quel paesaggio che fino ad allora era stato un paesaggio di cose, fermo, solitario, l’acqua fangosa e piena di gorghi, i filari di pioppi che si perdevano nella nebbia, l’Isola Bianca in mezzo a Pontelagoscuro che rompeva la corrente in due, quel paesaggio si muoveva, si popolava di persone e si rinvigoriva. Le stesse cose reclamavano un’attenzione diversa, una suggestione diversa»1.


La lezione non tarda a dare i suoi frutti con il Carlo Mazzacurati di Notte italiana (1987): un’automobile percorre ad andatura non sostenuta una strada lungo l’argine del Po. Una bambina in bicicletta mangia un ghiacciolo e la osserva sbandare ed essere risucchiata nelle acque. Non una parola, tutt’intorno pioppeti e campi a non finire. Silenzio, un fermo immagine di qualche secondo e la storia si sottrae alla geografia di un paesaggio considerato monotono, piatto, immutabile. Quel paesaggio che anche per Cesare Zavattini era semplice da descrivere: basta tracciare su un foglio bianco una riga orizzontale con la matita. Tuttavia, questa riga è un vero e proprio finis terrae, al pari della siepe leopardiana delimita il sopra e il sotto, il dentro e il fuori, la terra e il cielo, l’aldiquà e l’aldilà, il prima e il poi. Soprattutto questo, il prima e il poi, i vecchi e i giovani. Molti ricorderanno perciò le commoventi scene dell’Albero degli zoccoli (1978), ma io vorrei soffermarmi su una. Un anziano signore insegna al suo nipotino come è meglio piantare i pomodori, spalle ad un muro, perché possano così godere non solo della luce e del calore del sole, ma anche di quello rilasciato dalla pietra della casa, quando sarà sceso il tramonto. Attorno a loro la campagna della bassa bergamasca, non molto diversa dalla campagna brulla e faticosa dei mezzadri veneti prima e della pianura di bonifica poi raccontata così intensamente da Antonio Pennacchi in Canale Mussolini (Milano, Mondadori, 2010) o delle risaie pavesi descritte da Carlo Emilio Gadda nelle Meraviglie d’Italia (1939) più di mezzo secolo prima o quella del delta registrata nei suoi documentari da Florestano Vancini (Delta del Po, 1951 e Traghetti alla foce, 1955) così vicino alle pagine dei diari veneti di Gian Antonio Cibotto.

Quella riga in mezzo al foglio bianco è un vero e proprio solco, un correlativo oggettivo del negro semen dell’indovinello veronese, traccia di tante storie che non smettono di parlare di noi.
Ad osservarla bene, con gli occhi – più ancora che attraverso le parole – come il Principe di Salina attraversa con lo sguardo, chiuso nella sua carrozza, la piana di Catania, vulcanica, accecante, gialla (Il Gattopardo, 1963), anche la pianura non è più paesaggio di monotonìa. Si mostra in tutta la sua stratificazione di mondi e dimensioni complesse che si sovrappongono ineluttabilmente e la rendono paesaggio di umanità concreta e palpitante.


1 Michelangelo Antonioni, Una città di Pianura, Omnibus, 11 febbraio 1943, in «Bianco&Nero», n. 4, a. 2001, p. 117