Testo e foto di Francesco Parrella
Nel 2019 la pandemia non c’era e in Birmania i militari non erano ancora usciti dalle caserme.
Il mio viaggio è iniziato a Mandalay, nella parte centrale del Myanmar, passando per Bagan fino a Yangon (fino al 1989 Rangoon). Al primo impatto Mandalay, che è una città estesa, attraversata da lunghe strade larghe, non brilla certo per bellezza, e per muoversi bisogna ricordarsi i numeri: nessun nome ma un numero per ciascuna.
Vie e viuzze affollate e caotiche di giorno, dalle dieci di sera sono un deserto.
A quest’ora passa tutt’al più qualche suv, l’ennesimo con i finestrini oscurati, e teenagers che senza mai scendere dallo scooter socializzano facendo tutta la notte il giro dell’isolato.
Biglietto da visita di quella che fu la capitale del Regno Birmano fino all’occupazione britannica (1885) è il Palazzo Reale. E’ una città relativamente recente, fondata nel 1857, centro del buddismo birmano, occupata, danneggiata, prima dai britannici, poi dai giapponesi, anche il Palazzo del Re è stato molteplici volte danneggiato e ricostruito.
All’ingresso si lascia il passaporto in deposito da ritirare all’uscita. Una vasta area verde circonda l’edificio principale con una torre di guardia a spirale, da cui si gode un’ottima vista, e decine di edifici in tek che richiamano storia e cultura dell’antico regno birmano.
Ampie zone sono riservate ai militari, come il campo da gioco che costeggia il lungo viale che precede l’accesso al sito. Due chilometri di mura circondano la cittadella fortificata e un canale d’acqua ricorda il medioevo mentre tutto attorno è silente e poche le persone che si incrociano lungo il cammino.
Ma se si pensa alla Birmania la prima immagine che sale alla memoria visiva è quella di pagode e monasteri e in questa regione ce ne sono a centinaia.
Il luogo di culto buddista più importante dell’intera nazione è il Tempio Mahamuni: ospita uno dei soli cinque veri ritratti del Buddha. Solo gli uomini posso avvicinarvisi e attaccare foglie d’oro alla statua che nel corso dei decenni si è appesantita degli innumerevoli veli.
Nella Manadaly dorata alla pagoda Kuthodaw Paya è possibile impattarsi con il più grande libro del mondo: i canoni del buddismo sono in marmo, versi incisi su entrambi i lati delle lastre. Ovunque c’è oro che luccica come sui tetti appuntiti della pagoda Sandamani che ospita le spoglie terrene di numerosi principi.
L’oro del Myanmar è lo stesso che a Yangon, con ben 40 chili, ricopre la Shwedagon Pagoda, l’enorme stupa alla cui cima è piazzato un diamante di 72 carati. Oro e pietre preziose, tra cui giada e rubini, provengono dai giacimenti del nord a confine con la Cina nello Stato orientale di Shan, dove dagli anni ’50 si combatte una guerra tra esercito e militanti etnici che rivendicano l’autonomia sulla base della costituzione elaborata al momento dell’indipendenza dal raj britannico. Sono aree off limits per i turisti, già sotto la giurisdizione dei militari prima ancora del colpo di Stato del 1 febbraio 2021 quando hanno rovesciato il governo guidato dal partito della premio Nobel Aung San Suu Kyi. L’area montuosa a confine con Laos e Thailandia, il ‘Triangolo d’oro’, è un’altra “zona calda”. Fino agli anni Novanta la “via dell’oppio” seconda solo all’Afghanistan, oggi famosa per la produzione di anfetamine.
Ma attorno a Mandalay le sorprese son tante e i rischi più bassi.
Il famoso ponte in legno di tek “U Bein bridge”, a qualche chilometro dalla città; Sagaing, tra spiritualità e pregiati monasteri; Ava, l’antica capitale oggi poco più che un villaggio. Un tragitto tra antichi templi di straordinaria bellezza, che affiorano dai campi coltivati o dall’erba alta, e remoti villaggi con case di legno costruite sulle palafitte per via delle inondazioni, che a volte da queste parti sono particolarmente intense, come del resto in tutto il sud-est asiatico. I
Contadini, campi, strade di terra e buche: il paesaggio di questo paese è prevalentemente agricolo.
Man mano che ci si avvicina a Bagan il sole batte e il paesaggio assomiglia alle dune di un deserto anche se attraversato dal fiume Irrawaddy, il mitico fiume che nasce sull’Himalaya e attraversa l’intera Birmania.
Tra Old Bagan e Nyaung-U, lungo l’Irrawaddy, la Shwezigon pagoda è la prima delle spettacolari strutture sacre che s’incontra in questa valle delle “mille pagode” disseminate qua e lá nella steppa sabbiosa, dove si ergono templi maestosi come Thatbyinnyu e Ananda. Sull’argine naturale dell’Irrawaddy ci sono grandi residence e lussuosissimi hotel alcuni a picco sul fiume. Nei mesi caldi e umidi della stagione delle piogge i turisti arrivano prevalentemente dalla vicina Cina. Tour organizzati di anziani vacanzieri dove per tanti il momento migliore della giornata, passata a rincorrere l’alba o il tramonto a bordo di un calesse, arriva la sera al ristorante. Qualche chilometro avanti ci si imbatte in un remoto villaggio con una ventina di capanni, lontano da ogni modernità, dove uno spettacolo tradizionale, una sorta di cabaret popolare tra il sacro e il profano, ha riunito l’intera comunità. L’unica che forse ancora vive nel territorio di “Old Bagan” dopo che nel 1990 un’improvvisa operazione militare trasferì dalla mattina alla sera case e abitanti a cinque miglia a sud in quella che oggi è conosciuta come “New Bagan”.
Yangon ci aspetta e andiamo oltre. All’arrivo, prima ancora di mettere i piedi fuori dal bus, i tassisti si sono già divisi i passeggeri che stanno per scendere dal mezzo, e a ciascuno viene indicata l’auto sulla quale salire. Ma alla svelta. Fuori diluvia. La pioggia qui è una costante durante il monsone e quando non piove il caldo è opprimente. Il taxi parte solo quando è pieno, così qualche istante dopo ecco arrivare anche un’anziana signora e il figlio che prendono posto sul sedile posteriore. La corsa si arresta un minuto dopo la partenza, e per più di un’ora si rimane imbottigliati nel traffico. Poi finalmente l’auto imbocca una sorta di tangenziale e la corsa procede spedita. All’orizzonte inizia a delinearsi lo skyline della città, una metropoli di oltre 5 milioni di abitanti, illuminata dalle luci della sera. All’uscita dal raccordo si prosegue su una stradina di periferia, piena di buche, che conduce ad una bidonville allagata dall’acqua, dove scendono gli altri due passeggeri. Manca ancora un po’ per Downtown, il quartiere di fronte al fiume Yangon dove gli edifici del periodo coloniale sono rimasti gli stessi di allora. Nel centro della città si costeggiano grandi parchi, come sul lago Inya, con linee di palme e fiori di loto alti sul pendio verde; lussuosi alberghi, centri commerciali, palazzi in stile vittoriano, moderni uffici per investitori esteri.
Sulla collina di Singuttura la Swedagon Pagoda, lo stupa dorato alto 98 metri e simbolo del Paese, di sera soprattutto esprime tutta la sua meraviglia. Le vie più vivaci, chiassose ed affollate di Downtown sono a ‘Chinatown’ vicino alla Sule Pagoda, altro importante stupa dorato, un chilometro avanti.
Nelle vicinanze si trova il porto, dove ogni giorno arrivano grossi carichi di pescato, di fiume e d’allevamento, smistati nel mercato all’ingrosso lì accanto dove da mezzanotte alle cinque del mattino si lavora senza tregua. Nella stazione ferroviaria s’incrociano pochi viaggiatori in arrivo e in partenza, in un sottofondo di vecchi treni che sferragliano. Agli angoli delle strade sostano i carretti a mano degli ambulanti che vendono sigari birmani e betel, che qui masticano tutti; su una bancarella di calendari ce ne uno con la foto di Aung San Suu Kyi, ed è la prima immagine della leader birmana vista dall’arrivo in Myanmar. L’apertura al turismo internazionale alcuni anni fa ha fatto nascere numerosi ostelli, guest house, localini e ristoranti, sparsi un po’ ovunque a Downtown. Gli spazi di arte contemporanea erano tornati ad ospitare mostre ed eventi. Poi è arrivata la pandemia.
Un anno dopo è tornata al potere la dittatura militare.