Testo e foto di Alessandro Balduzzi
Tra tutte le città toscane, Livorno è forse la più sconosciuta. Se chiedete a qualcuno se vi sia stato, in pochi risponderanno affermativamente, almeno al di fuori della Toscana; una manciata vi dirà forse di esserci passato, in coda per salpare alla volta di spiagge sarde o monti corsi. Certamente non mancano bagliori nell’oblio generale: Amedeo Modigliani, la tradizione politica di sinistra, la rivalità con Pisa, la tragedia del Moby Prince nel 1991, le cinque ci del cacciucco. Un’aneddotica che si disperde nelle libecciate, durando quanto il sale sulla pelle dopo una nuotata.
Arrivando in treno a Livorno un lungo viale conduce il visitatore al centro. O forse è meglio definirlo stradone, figlio del pragmatismo urbanistico del secondo dopoguerra, per ricucire un città dilaniata dai bombardamenti. Percorso viale Carducci e sorpassato il cisternone, le cui forme fanno sovvenire il cenotafio di Newton progettato da Boullée, si sfocia in piazza della Repubblica, ellisse con due statue di granduchi alle estremità.
La maggiore virtù della piazza certo non è estetica, quanto piuttosto funzionale, fungendo appunto da androne d’ingresso al nucleo storico di Livorno. Sotto la piazza scorre il cosiddetto fosso reale da cui si dipana una rete di fossi, cui il titolo onorifico di “canali” non è stato concesso, forse perché – Italia dei mille campanili, e Toscana dei diecimila – a realizzarli furono dei fiorentini. E non fiorentini qualunque, ma i Medici cui alla fine del XVI secolo si deve la decisione di trasformare un allora modesto insediamento nella porta d’accesso dei propri possedimenti al mare.
Proprio il legame con il mare caratterizza tuttora Livorno e i suoi abitanti. Innanzitutto, un chiarimento anche qui onomastico: secondo l’Istituto Idrografico della Marina Militare Italiana è ancora il mar Ligure a lambire Livorno, secondo l’Organizzazione idrografica internazionale, la vulgata e il principale quotidiano cittadino è già il Tirreno. E qui a quest’ultima etichetta ci si atterrà. Le acque del Tirreno (sic) s’insinuano nelle viscere della città sotto forma dei canali già citati, che rendono superfluo spiegare le ragioni del nome di “Venezia Nuova” al quartiere maggiormente indenne alla distruzione del secondo conflitto mondiale (e all’assai poco felice ricostruzione). La “Venezia Nuova” certo non può competere col suo Serenissimo predecessore; ciononostante, guadagna punti nell’ariosità luminosa e nella semplicità architettonica, due caratteristiche che nella città dei Dogi spesso cedono il passo alla grevità data da spazi più angusti, decorativismo talvolta eccessivo e un cielo che pur mediterraneo lo è con tinte differenti.
Lasciandosi alla spalle i canali, però, il sangue che per Livorno rappresenta il Tirreno si disvela appieno in un lungomare che, per svariati chilometri, dalla zona portuale conduce fino ad Antignano, per poi perdere il carattere propriamente urbano e andare a coincidere con l’Aurelia. Spostandosi verso sud, l’operosità dello scalo portuale, la frenesia dei pescherecci e lo strombazzare dei vacanzieri in attesa di imbarco sui traghetti cede gradualmente il passo a una passeggiata a mare lungo la quale si susseguono stabilimenti balneari, la scacchiera bianca e nera della Terrazza Mascagni, la sontuosa facciata dell’Hotel Palazzo a testimoniare i fasti dell’epoca d’oro del turismo tardo-ottocentesco e “pre-versiliano”. E scendendo ulteriormente si arriva all’Accademia navale e di lì al quartiere dell’Ardenza, con i suoi villini liberty affacciati sul libeccio.
Livorno non conosce sabbia, sicché basso continuo è lo scoglio, al massimo qualche caletta benedetta dai ciottoli o il cemento di un molo. E lì si consacra il livornese al sacro rito dell’onda, del sale, dell’abbronzatura. La relativa scomodità della roccia è sprone per gettarsi più spesso in acqua, la generosità del sole lo è per indugiare in penniche lucertolitiche. Il mare detta i ritmi, i tempi, la scansione delle stagioni in una tirannia tirrenica, una “tirrenide” che non ammette rifiuti.
Il proverbio labronico “meglio disoccupato all’Ardenza che ingegnere a Milano” è forse un’espressione frusta che tuttavia esprime bene il genius loci livornese. Del livornese legato alle radici, ma a quelle della posidonia, le cui foglie nastriformi ondeggiano e si contorcono in una danza d’amore al mare.