Il vetrocemento dei nuovi grattacieli oscura le guglie dei templi della capitale cambogiana. E una bulimia mercantile popola la città: da Strabucks a una infinità di cambia-valute. Con alle spalle i fantasmi della tragedia degli anni ’70. Mentre sull’isola dei Diamanti sorgono palazzi simil-europei. E Alessandro si avventura in bicicletta, nei giorni del Natale, in questo labirinto contemporaneo.
Testo e foto di Alessandro Balduzzi
“Phnom Penh è una delle ultime città asiatiche in cui i templi pittoreschi dominano, con le proprie guglie, un paesaggio urbano di edifici bassi”. Così un guida turistica della Cambogia pubblicata nel 2012. Se l’edizione di allora può essere benissimo utilizzata oggi per visitare le meraviglie di Angkor Wat, certo la situazione nella capitale non è esattamente la stessa. Benché templi e pagode sopravvivano, infatti, Phnom Penh è ormai una metropoli preda di una febbre edilizia che trova sfogo in escrescenze di cemento armato e vetrate.
Qua e là spiccano edifici risalenti al protettorato francese (come la stazione ferroviaria o il mercato centrale in art déco, dominato da una cupola tra le più alte al mondo senza pilastri), ma la capitale cambogiana ha ceduto al vetrocemento della contemporaneità. Se da uno scaffale immaginario prendiamo il manuale diagnostico dell’urbanizzazione globalista, il paziente presenta tutti i sintomi. Il traffico, innanzitutto. L’auto è progresso sin dai tempi di Marinetti, alla peggio lo scooter o il tuk-tuk a motore. Nel gorgo di incroci in larga parte renitenti ai semafori, la mia bicicletta a nolo appare quasi un residuato maoista, una presa di posizione oscurantista nel bailamme di clacson e gas di scarico. L’amministrazione cittadina ha da qualche tempo deciso di introdurre una manciata di linee di autobus. Insufficienti e misconosciute, sono però un timido tentativo di arginare lo strapotere motorizzato.
Un altro sintomo dalla chiara eziologia è il commercio, il quale – si sa – è l’anima di sé stesso. E quindi una bulimia di negozi, sportelli di cambiavalute, bancarelle, venditori ambulanti su supporti pericolanti. Forse a rappresentare maggiormente un benessere a lungo agognato e ora illusoriamente a portata di mano è l’offerta alimentare, esosa e ridondante. I mercati strabordano di frutta e frittura, mangostani e papaye, risi senza bisi e capitoni senza capodanno, ma con una miriade di altri condimenti. Tuttavia, benché il mercato sopravviva come luogo principe di scambio e nutrimento, il salto di qualità verso il pieno inserimento nel circuito globalconsumista è rappresentato dalle catene internazionali. Starbucks, KFC (la prima a sbarcare in Cambogia nel 2008) e McDonalds sono solo alcuni dei nuovi templi dove si officia l’incontro con l’Occidente senza avere bisogno di un visto o di un costoso biglietto aereo.
Un’ulteriore strumento dell’urbanizzazione senza confini è, infine, la lingua, potente grimaldello ascrivibile alle declinazioni del soft power. Anche a Phnom Penh l’arzigogolato alfabeto khmer è sempre più spesso affiancato dall’inglese o – perché siamo pur sempre nella sfera d’influenza di Pechino – dal cinese. Quando si tratta di terreni in vendita, poi, il khmer viene addirittura omesso; tanto chi ci mette i soldi viene certamente da fuori. In inglese, invece, campeggiano gli auguri di buon Natale e felice anno nuovo, tra alberi e babbi panciuti che in un Paese buddista sono un recente acquisto che strizza gli occhi agli ospiti forestieri.
Fin qui, tutto bello. La rivincita di un popolo che sotto il delirio comunista dei Khmer rossi guidati da Pol Pot, tra il 1975 e il ’79, ha vissuto l’abolizione di commercio e moneta, la distruzione delle infrastrutture produttive, lo svuotamento coatto delle città, il ritorno a un’economia agricola negli intenti autarchica e nella pratica fondata sul lavoro forzato e incapace di garantire il minimo per la sopravvivenza alla stessa popolazione, trasformata in una massa informe di contadini. E poi campi di prigionia e sterminio che insieme alla fame concorsero al genocidio di un quarto dei cambogiani, con stime che oscillano tra gli 1,5 e i 3 milioni di persone.
Con il passaggio all’economia di mercato negli anni Novanta, la Cambogia ha conosciuto una crescita esuberante, forse non da dragone asiatico ma certo da scattante geco. E qui come altrove la schiera dei sommersi è più numerosa di quella dei salvati. Ancora più evidente è il fenomeno nei tre giorni in cui ricorre la Festa dell’Acqua. Bon om touk, in lingua khmer, cade solitamente in novembre, segnando la fine della stagione piovosa e l’inversione delle acque dei due fiumi alla cui confluenza sorge Phnom Penh, il Mekong e il Tonlé Sap. Durante i mesi di pioggia, infatti, il Mekong si ingrossa a tal punto da non permettere di confluire al più esile Tonlé Sap, il che porta all’ingrossamento dell’omonimo lago a monte e all’allagamento di vaste aree del Paese. Il ritiro delle acque viene quindi celebrato con fuochi d’artificio, regate, concerti. Sul lungofiume della capitale accorrono migliaia di cambogiani, perlopiù di estrazione popolare, provenienti dalle vie di un centro che ancora resiste alla gentrificazione con i panni stesi in palazzine fetiscenti o da una provincia dalle gambe ancora immerse nei campi di riso e la testa rivolta ai grattacieli della città.
Ho vissuto alcuni giorni in un ostello. Villa Papillon. Le ombre larghe del passato di terrore cambogiano hanno subito fatto correre la mia memoria alla Guyana francese dell’omonimo film con Steve McQueen. La proprietaria, però, non ha nulla a che spartire con i carcerieri quando ripete solerte: “Mi raccomando! Non girate con molti soldi addosso. Non sono cattivi, sono solo poveri!”. Sessantenne, figlia di militare, è fuggita in Francia dopo l’ascesa dei Khmer rossi, e quel suo francese petulante non teme smentita né censura di sorta. E in effetti nelle strade sono tanti i mendicanti scalzi, i bambini sporchi di miseria e terra battuta. Li ho già visti nel pomeriggio, quando in bicicletta ho raggiunto Choeung Ek, già campo di sterminio sotto Pol Pot e oggi memoriale del genocidio. Ho attraversato una periferia di lamiere in odor di malaria, dove il commercio al dettaglio languisce nelle amache vista fogna e l’immagine di un Paese che è tutto un cantiere rimane solo nei manifesti del Partito Popolare al governo. Da quelle case più simili a baracche ora sono accorsi in città per assistere ai festeggiamenti. Qui la Cambogia monarchia costituzionale si è sbizzarrita in uno spettacolo di propaganda realsocialista. Su una dozzina di chiatte sono state montate delle enormi luminarie, ciascuna a rappresentare lo stemma di un ministero. Particolarmente kitsch è quello del turismo, stilizzazione di Angkor Wat che i “visitatori stranieri” (questa la dicitura) possono ammirare da una tribuna d’onore loro riservata a fianco del palco reale.
Sull’altra sponda del fiume, campeggia il logo illuminato di una nota birra danese. Poco più giù, lungo il corso del Mekong, sull’isola dei Diamanti sono stati edificati viali di palazzi in stile simil-europeo e colori pastello che mi ricordano una riproduzione grossolana di alcune facciate pietroburghesi. Sono vuoti, in attesa di acquirenti che vogliano investire in queste strade battezzate con i nomi di università statunitensi. Nel 1975, Pol Pot svuotò Phnom Penh costringendo il “popolo nuovo” (così gli abitanti delle città nella terminologia dei Khmer rossi) a emigrare nelle campagne. Oggi i cartelloni in inglese e cinese sapranno riempire queste scatole di stucchi? Nel frattempo, al fiume, c’è un ragazzo che si lava, incurante dei nuovi villaggi Potëmkin.