Incontro con Pierre Jourde, scrittore francese, celebrato in patria, quasi sconosciuto da noi. Una piccola casa editrice, Prehistorica, ha tradotto e pubblicato il suo ultimo libro: ‘Il viaggio del divano letto’. Pratica il pugilato e le arti marziali: ‘La letteratura è uno sport di combattimento’. Uomo ruvido e difficile, ma capace di intenerirsi di fronte al sorprendente regalo di un antico disco.

Testo di Valeria Cipolat

  Le parole di Pierre Jourde echeggiano ancora nella mia testa, quando entro nell’albergo dove abbiamo fissato il nostro appuntamento.

  Le aveva dette qualche ora prima, durante la presentazione ufficiale del suo nuovo libro a Pordenone Legge, uscito in Italia con la casa editrice Prehistorica Editore. Una giovane ma coraggiosa casa editrice che, andando (ostinatamente?) contro corrente, traduce piccoli capolavori di grandi personaggi, per lo più francesi, conosciuti in Italia solo da chi ha la curiosità di andare “oltre” alle copertine e i titoli apparentemente stravaganti (“un libro così lo comprerei subito” mi aveva confessato un’amica a cui l’avevo mostrato, poco prima dell’incontro con l’autore). “Il viaggio del divano letto” è lo strano titolo scelto per rappresentare un viaggio on-the-road, solo in apparenza monotono, per esaudire il desiderio della madre di riportare il divano della nonna, nella vecchia casa di famiglia. “In quella parte della Francia centrale – l’Auvergne o Alvernia in italiano – non c’è niente!” ci aveva tenuto a sottolineare Pierre durante il colloquio del mattino, ma lascia intuire che nel romanzo non c’è solo il mero trasferimento fisico dei tre personaggi da un punto “A” a un punto “B” della Francia dei giorni nostri.

  Jourde non fa niente per rendersi simpatico. Non ne ha bisogno; deve aver già capito che la vita è troppo breve per fare compromessi scomodi. Ha lo sguardo di qualcuno che ha dovuto affrontare già molte battaglie, ma che non in tutte ne è uscito vincitore.

  Sembra far parte di quel gruppo di persone alle quali la vita ha già presentato parecchi conti. A costo di sembrare arrogante non si piega alle mode, non vuole compiacere a tutti i costi, solo per vendere più libri o per entrare nei giri giusti e vincere premi prestigiosi.

  Quindi un libro che non è solo un viaggio sulla strada, ma forse una scusa per saldare conti e tirar fuori scheletri da un armadio immaginario. Nel libro dunque c’è molta storia personale, c’è il rapporto conflittuale nelle relazioni, che sembra contraddistinguerlo, ovunque vada. “Uno così è meglio averlo come amico” penso subito, appena ci sediamo uno di fronte all’altro. Se non altro perché pratica box e altre discipline marziali da più di vent’anni… “Ho iniziato tardi” riflette mentre calcola il tempo trascorso “Gli altri sport non mi danno la stessa emozione“, mi dice durante la nostra chiacchierata. Qualche ora prima aveva rivelato che è un fan dell’MMA (mixed martial arts), il cui campione indiscusso è Conor McGregor. Mi viene in mente il film “Fight Club” con Brad Pitt ed Edward Norton. Ripenso anche a una frase pronunciata poche ore prima “Il reale è quando ci si fa male”. Chissà se qualcuno gli aveva fatto notare che la sala dov’era stato accolto l’incontro del mattino si trova nella zona di Pordenone soprannominata “Il Bronx”.

  Sindacalista studentesco fin dai tempi dell’Università forse gli è stato naturale passare dalle lotte sindacali alle lotte intellettuali. Sorride, quando glielo suggerisco.

Mi viene in mente un articolo di Chronicart.com intitolato «La littérature est un sport de combat» che avevo trovato, mentre cercavo informazioni su questo autore, a me sconosciuto fino a qualche giorno fa (Socrate la sapeva lunga: “so di non sapere” sta diventando sempre più anche il mio motto). “Che la letteratura sia uno sport di combattimento, lo dimostra bene Pierre Jourde” con queste parole l’articolo ricorda un tentativo di linciaggio che l’autore ha dovuto subire a causa di un libro pubblicato nel 2003, “Pays perdu”. Aveva descritto il carattere e la vita degli abitanti di quel paesino, di origini contadine, da dove i più, quando possono, fuggono per schivare la povertà. “Dove non si butta via mai niente” conclude. Un po’ com’era qui. Non posso non pensare a mia nonna, mite contadina che non aveva mai conosciuto il padre; partito per la Grande Guerra lasciando la moglie incinta, non riuscì a ritornare. Anche lei come quelle genti del nord della Francia, lontane fisicamente ma accomunate da un simile destino, conservava qualsiasi cosa “Perché” diceva “non si sa mai”. Pierre rivela che i nonni, al limite dall’essere accumulatori seriali, fecero fortuna con le vecchie pelli che commerciavano per tutta la regione.

  Il libro dunque descriveva, inequivocabilmente, quella stessa piccola comunità: persone reali di Lussaud, paese d’origine della sua famiglia. Aveva suscitato così tanto rancore, che anche se non apertamente nominati, gli abitanti si erano riconosciuti nelle storie di quei rozzi contadini ubriaconi citati nel libro. Mi viene in mente Mauro Corona e il paese di Erto, tristemente noto per le vicende del Vajont: un piccolo paese dove ci sono più osterie che ristoranti, alimentari o altre attività commerciali.

  È un intellettuale scomodo, Pierre Jourde; nonostante abbia ricevuto premi accademici prestigiosi (il Prix Renaudot Des Lycéens, il Prix Jean Giono e il prestigiosissimo Grand Prix De L’Académie Française), alla giornalista che lo aveva intervistato al mattino aveva confessato che non li amava molto, perché, nella maggior parte dei casi, la giuria è formata da intellettuali che disprezza. L’articolo di Chronicart terminava ricordando anche alcuni episodi durante i quali aveva “fatto fuggire”, “esasperato” e “reso isterici” taluni intellettuali francesi (Christine Angot, Josyane Savigneau, François Bégaudeau) evidentemente irritanti anche all’autore dell’articolo. “Come si fa a non trovarlo simpatico?”, concludeva ironicamente il giornalista.

  Il libro parla anche del rapporto con oggetti che rappresentano la metafora dell’attaccamento alla vita e i legami con le persone. Gli oggetti come protagonisti: sono piccoli racconti dai titoli intriganti: “I tappi più assassini”, “Il bidone tentacolare”, “Il divano letto devastatore”.

  I capitoli del libro sono storie, aneddoti che i due protagonisti rimembrano e raccontano durante il viaggio, alla cognata, terzo personaggio del romanzo. A volte i fatti descritti sono talmente strani da sembrare assurdi. Cita il Guatemala, dove ha rischiato di essere fucilato. Ma racconta anche quel che accadeva con la vicina di casa, alsaziana, “del genere con cofana bionda”. La vecchia, sorda come una campana, lo svegliava ogni mattina ascoltando brani bruttissimi di Radio Nostalgia, che trasmetteva orribili canzoni di Adamo, cantante degli anni ’60-70 che aveva avuto un discreto successo anche in Italia, dopo un’apparizione al Festival di Sanremo. Mi viene in mente che anche i miei genitori avevano un suo disco… Inoltre la donna aveva manie stravaganti, come suonare a volume inumano una cornamusa scozzese il cui suono trapassava muri e appartamenti dell’edificio, facendo saltare i nervi a tutto il vicinato.

  Pierre, sembra avere un’inquietudine, una rabbia che traspone nei suoi scritti mescolata abilmente con un pizzico di ironia e auto-ironia, senza la quale non si possono affrontare gli ostacoli della vita. “A volte” prosegue “nella realtà ci sono esperienze molto forti che però sembrano ‘irreali’”.

  Usa l’umorismo come risposta alle insidie e agli “scherzi” della vita. Rifletto: non prendersi sul serio, il mezzo sorriso; è forse una maniera per cercare di sdrammatizzare gli avvenimenti dolorosi e affrontare anche i fantasmi più paurosi?

“Anche se chi è troppo divertente, chi fa ridere in maniera intelligente, difficilmente viene preso sul serio” commenta amaramente, riferendosi ad Armand Sylvestre, autore del XIX secolo, mai compreso completamente durante la sua epoca.

  È un uomo che mette soggezione Pierre. Nel ricercare informazioni su di lui, mi ero resa conto che mi sarei trovata di fronte a un gigante della letteratura contemporanea. Per rompere il ghiaccio gli regalo una copia di Erodoto108: il numero speciale dedicato al Friuli Venezia Giulia. Ho pensato di regalarglielo perché trovo delle similitudini con l’Alvernia, sua regione di provenienza. Ma l’ansia rimane; la sindrome dell’impostore è sempre in agguato. La scaletta che avevo preparato si è dissolta, mettendo confusione nella sequenza logica che avevo prestabilito. Sono costretta ad andare a braccio. Vorrei scavare di più, cercare di scalfire quella (apparente?) corazza che mantiene tutto il tempo. Nell’intervista del mattino aveva rivelato che aveva passato tutta la vita cercando di non essere come il padre: una persona estremamente buona che però, non riusciva a farsi valere, a far sentire la propria voce per rivendicare i propri diritti.

  Tento l’approccio legato al viaggio. Pierre infatti è anche un grande viaggiatore. Interessanti le sue esperienze sull’Himalaya, visitato in più riprese tra gli anni ’70 e ’80 con altri due amici, senza le attrezzature adeguate. Anche nel libro che ne è derivato “Il Tibet in tre semplici passi” (Le Tibet sans peine) scritto nel 2008 e tradotto qualche anno più tardi in italiano, racconta in  maniera ironica le vicende dei tre amici. “…attrezzature più consone a una gita al mare piuttosto che a un’ascesa sulle montagne più alte del mondo”, commenta una recensione di qualche anno fa. Alla mia domanda se dopo la prima volta si fossero equipaggiati meglio mi risponde divertito. “Al contrario” commenta “Eravamo addirittura meno attrezzati: poiché la prima volta non c’era neve, la volta successiva tralasciammo l’equipaggiamento pesante. Poi, quando siamo arrivati, c’era tantissima neve e abbiamo sofferto moltissimo il freddo”.

  Mi sbilancio ancora, cercando di scoprire di più sulla relazione che ha con il fratello. “Questo non ha niente a che fare con il libro” mi risponde stizzito. “È vero”, gli rispondo “Come la boxe, d’altronde!” sussurro, ma non sono sicuro mi abbia sentito.

  Il tempo è finito, ci dobbiamo congedare. Timidamente estraggo un pacchetto dalla mia borsa e glielo porgo. Alla fine riesco a strappargli un sorriso. “C’est pas vrai!” esclama. Una risata finalmente illumina il suo viso. Ho rovistato in un vecchio mobile e l’ho trovato. Chi meglio di lui può apprezzare la copia originale di un vecchio disco degli anni ’60 di Adamo?