A Damasco l’aria è secca e polverosa, intrisa di smog e sabbia mista a polvere sollevata dal vento; accompagnata dal profumo dolciastro di yasmin e narghilè simile a quello dello zucchero filato quando si brucia nella macchina. E poi c’è il profumo, spesso agre, delle persone, che giunge a ondate; è l’odore del respiro negli autobus zeppi all’inverosimile, che marciano con le porte aperte in cerca di un po’ di refrigerio dal caldo estivo. E intorno alle nove di sera, poco prima che passi lo spazzino a ritirare la spazzatura posta diligentemente fuori dai portoni, si sente un odore di frutta e verdura marcia.
Perdersi tra i vicoli del suq coperto, scoprire profumi nuovi, rimanerne inebriati e farsi accompagnare da questi nelle passeggiate, inciampare sul pavé sconnesso e cercare riparo sotto i pergolati di vite che riparano dal sole; tanto caldo in Luglio da dare alla testa e far venire i brividi e la pelle d’oca.
Perdersi tra la folla della città vecchia, tra i vicoli a serpentina, le voci basse e grevi, sorridere degli sguardi espliciti dei giovani e dei non più giovani. Sfilarsi le ciabatte e sentire il marmo tiepido, il contatto delle piante dei piedi con le lastre calde e dure; camminare lentamente attraverso il cortile e, infine, sentire il contatto con i morbidi tappeti, ritrovarsi tra le colonne, tra il silenzio borbottato. Giungere in moschea durante una delle cinque preghiere canoniche affascina. Nel corridoio centrale ci si trova circondati da uomini e donne divisi tra loro, in preghiera. L’imam ritma i loro gesti con una passione che sfiora il pathos, la cantilena a mezza voce, dolce e roca, i gesti di centinaia di persone, simultanei come un sol uomo, la concentrazione e la dedizione sui volti. La passione della preghiera. La sottomissione nell’inchinarsi e rialzarsi, è come una lunga ed estenuante richiesta di perdono.
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Quando non sono in preghiera, è bello scivolare nella parte riservata alle donne della moschea sciita; una donna allatta con dolcezza ed estrema discrezione, altri due irrequieti bambini al suo fianco. Una ragazza alta e longilinea coperta da una lunga veste immacolata scompare con movimenti armoniosi ad ogni genuflessione tra la folla di donne sedute.
Un fuscello. Un’anziana signora, inginocchiata, il sedere poggia sui talloni, i palmi rivolti verso l’alto, all’altezza del volto, la schiena dritta, prega sottovoce e instancabile. Di quando in quando si guarda intorno, gli occhi piccoli circondati da rughe, occhi lucidi e attenti. Una ragazza, finita la preghiera apre il Corano e comincia a leggere, la schiena appoggiata al muro, dritta, legge in un sussurro impercettibile, solo le labbra e il dito che scorre sulle pagine si muovono. Il volto teso per la concentrazione, i gesti lenti e tranquilli. Ognuna persa nel contatto con se stessa e Allah, ognuna in una tranquillità imperturbabile, e intorno a loro, caoticamente, chi versa una lacrima, gruppetti di donne che chiacchierano, che si scattano delle foto, bambini che corrono in silenzio, chi cammina sfiorando con le vesti le teste di altre donne in preghiera. Tutte si sfiorano tra loro, incessantemente, i larghi mantelli che frusciano sul pavimento, mantelli costantemente rincalzati sulla fronte.
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Il viaggiare, il perdersi per ritrovarsi in villaggi dispersi tra il giallo deserto e l’Eufrate azzurro cupo smeraldo. Le donne dai vestiti di mille colori, a cavallo di asini o stipate nel retro di camioncini, sorridenti; alcune coperte fin sotto i grandi occhi neri, per ripararsi dal vento sabbioso e dal calore, da lunghe e spesse kefia colorate.
Bambini di pochi anni che giocano mentre pascolano le pecore dal muso nero, la lanugine bianca; bambini dai volti sporchi di nero, i grandi sorrisi ma gli occhi da adulti, maliziosi e giocosi nella frenesia e l’irrequietezza tipica dei bambini di una decina di anni, i vestiti macchiati e sformati, le mani nere. Tutto ciò nell’atmosfera irreale del deserto che circonda villaggi di basse case di pietra, il giallo a tratti cupo o brillante che contrasta con l’azzurro scintillante del cielo e del fiume. Le strette strade che corrono nel deserto, disastrate; le colline dalle cime piatte tagliate dal vento, i villaggi gialli e grigi, l’estrema povertà e l’immondizia; ma non sono luoghi che fanno sognare, tutto si scontra con una realtà dura che non fa tristezza; è una vita priva dei nostri comfort, ma a contatto con la natura e coloro che ci vivono. È un po’ la teoria del pesce rosso: fino a che non sai le opportunità che puoi avere, o semplicemente non conosci altro, la tua vita può essere meravigliosa.
Di Priscilla J. Smith