Nel momento in cui realizzi di essere partito, ti senti diverso. E’ un coacervo di emozioni e aspettative che nascono e si scatenano insieme, o forse solamente l’entusiasmo e la leggerezza che dà il lasciarsi tutto alle spalle per un po’ e godersi finalmente la strada e la moto.

La partenza ha in sé una sorta di sospensione: non ha tanta importanza dove si va e per quanto tempo. Ti allontani da un punto per raggiungerne un altro e cominci già a porti sotto una diversa ottica. Sei un te stesso che già cambia, quanto meno d’umore, ancor prima d’aver raggiunto la meta.
La meta. C’è chi si riflette nell’idea di un luogo sconosciuto nel quale immergersi e scoprire dunque quanta corrispondenza c’è tra preconcetti, emotività e realtà. Alcuni pensano che questa coincidenza determini la riuscita di un viaggio, altri preferiscono farsi sorprendere da ciò che poi effettivamente scoprono e dall’imprevisto. Ma tant’è. Noi siamo stati spinti principalmente dalla musica. Sapevamo di un festival in Serbia, il più grande festival della tromba, pare, e d’altro canto la cartina geografica suggeriva quello che poteva essere un bel viaggio su due ruote. Così, senza troppi preparativi, abbiamo raccattato quattro cose indispensabili e siam partiti.

Ci eravamo lasciati Trieste alle spalle e scivolavamo lungo una strada affiancata da morbidi e verdissimi profili collinari, qua e là singole case dai tetti scuri e spioventi quasi fino a terra. Poiane e piccoli falchi seguivano il vento. Continuavamo a scendere tra prati che sfumavano in giallissimi campi di girasoli e qualche bestia al pascolo verso la nostra unica tappa stabilita: Guča.

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Guča è un microscopico paesino a 150 chilometri a sud di Belgrado, proprio nel cuore della Serbia. Ci son voluti quasi due giorni per arrivare, poche pause e un po’ di delusione nello scoprire che in realtà l’Est non è Kusturiciano come ci aspettavamo, se non a tratti, dettagli e volti. Le strade scorrevano morbide tra ordinate coltivazioni e natura verdeggiante. I paesi che attraversavamo eran piccoli conglomerati di casette, effettivamente per lo più senza intonaco, piantate al centro di graziosi giardini con fiori e aiuole e giochi per bambini. Ai gazebo, volti scuri, segnati dal sole e dalla vita, espansi in gioviali sorrisi che denotavano una probabile penuria di dentisti nella zona. Ma del caos, della sporcizia, del rumore e dei grappoli di roulottes che ci aspettavamo di incontrare, poche, anzi, pochissime tracce. Se non -ricordo- all’incirca a metà di una strada lunga e dritta in maniera quasi surreale, che tagliava un’oasi di immondizia in cui razzolavano uno struzzo solitario e spennacchiato e una famiglia di rom tutta intenta a selezionare rifiuti. In mezzo al nulla.

Guča, come dicevo, si nasconde tra i monti e i boschi della Serbia, e ormai da cinquant’anni ospita in agosto la settimana di festa dei trumpecari, i suonatori di tromba, che arrivano non solo da tutti i Balcani, ma ora anche dal resto del mondo. Parallelamente al concorso ufficiale, per il quale vengono allestiti un popò di palco con luci e impianto audio, giuria e concorrenti iscritti, si sparpagliano per le strade numerose bande che suonano furiosamente tutte insieme, alcune magari prendendo di mira un poverino che all’improvviso si trova circondato da ottoni e percussioni le cui note mirano come cecchini direttamente alle orecchie.
Non essendoci gran che d’alberghi o locande, speravamo di riuscire a prendere in affitto una stanza o, per piantare la tenda, un fazzoletto di giardino che gli abitanti del paese mettono a disposizione a poco in occasione del festival, ma una volta arrivati abbiamo capito che non sarebbe stato possibile. Accampamenti di fortuna sorgevano un po’ ovunque e nei posti più impensati. La domanda che ci sorse a posteriori fu:  com’ è possibile che la gente riesca a raggiungere tende e giacigli improvvisati in cima alle colline circostanti e su pendii improbabili ( anche lì dove spuntavano non considerati cartelli di divieto di campeggio) visto il delirio di musica e alcool che si scatena dalla sera all’alba?

La scuola era stata adibita a “campeggio ufficiale” così che ogni centimetro quadrato del suo cortile era coperto dalla variopinta tendopoli degli avventori. Giunti lì siamo stati gentilmente messi di fronte a una scelta: accaparrarci per il prezzo standard qualche minuto d’ombra al mattino e avere così la speranza (risultata poi vana ) di dormire, oppure, con un po’ di sconto, una cottura a puntino alla canicola d’agosto. Abbiamo deciso di non badare a spese: dopotutto eravamo in vacanza. Ci siamo sistemati vicino a un furgoncino di ragazzi francesi che con la loro ininterrotta selezione musicale e i loro notturni attacchi ciarlieri hanno vanificato il nostro investimento per il sonno. Del resto sapevamo che non era un festival di seminaristi…
La palestra e le aule erano invece le suites dei musicisti, che tornavano sul far del giorno dopo aver marciato per ore sotto il peso degli ottoni. E’ impossibile descrivere l’aroma che i loro bianchi calzari e piedi stanchi emanavano lungo i corridoi, tragitto imprescindibile per raggiungere i bagni. E nonostante si vedessero pavesi di centinaia di calzini sventolare stesi al sole del mattino.
Una volta svegli i trumpecari delle varie bande si riunivano e tutti belli impomatati e già in divisa si appartavano e iniziavano a provare i pezzi che avrebbero poi suonato sul palco o anche semplicemente la sera lungo le strade. Li abbiamo visti dietro alle case, in mezzo ai prati, all’ombra di un albero gonfiare incredibilmente le loro guance sotto lo sguardo attento del capo lì a correggerli per perfezionare la performance e poi prestarsi agli obiettivi coi loro volti gioviali, occhi gialli e ampi sorrisi. Ogni nota è una lettera di presentazione, il loro biglietto da visita lo avevano stampato sulle magliette che poi avrebbero portato in giro tutta la notte. Una passeggiata per le vie del paese ce li ha svelati appartati un po’ ovunque. E ci ha portati sulle rive del Belica dove la festa era già cominciata a metà pomeriggio. In un punto in cui l’acqua del fiume arrivava poco più su delle caviglie, un gruppo di ragazzi danzava brandendo per aria bottiglie di birra e un ombrello aperto a spicchi colorati e invitando chi li stava a guardare ad unirsi al festino. Sulla riva una band suonava a pieni polmoni. Noi eravamo seduti sul ciglio e ci godevamo la scena al sole del pomeriggio. Poco lontano dei ragazzini approfittavano della confusione per sgraffignare delle bottiglie in fresca da una cassa momentaneamente incustodita nell’acqua e un po’ più in là, un corpulento omaccione cinto in un microscopico costumino verde fluo ( che poi con gran entusiasmo abbiamo riconosciuto la sera abbracciato a un enorme trombone ), si dedicava placido a un bagno.

Da lì a poco eravamo di nuovo nel turbine notturno della festa vera e propria, quella per le vie, tra musicisti, bancarelle di souvenir, cianfrusaglie e oggetti tradizionali, nel fumo di maiali e agnelli arrosto, tra fiumi di birra e avvenenti danzatrici, nella musica, nel delirio, nella gioia sguaiata di tutti che si riversava per tutto il paese e per tutta la notte.

Siamo rimasti lì due giorni e mezzo, forse tre. Difficile a dirsi. Abbiamo gozzovigliato come di rado capita, abbiamo dormito poco e male e ci fischiavano le orecchie. Eravamo felici, soddisfatti, ma sazi. Così abbiamo raccattato di nuovo le nostre cose e siam partiti per andar 150 chilometri più a nord, alla volta di Belgrado.

Testo di Lorenza Fornasiero  |  Fotografie di Federico Marin  www.federicomarin.com