testo e foto di Valentina Cabiale.
Al Salone del Libro alla ricerca della letteratura di viaggio. Non una ricerca sistematica, che sarebbe d’altra parte impossibile, vista la confusione, la massa frastornante che ti sospinge davanti a uno scaffale e impedisce di raggiungerne altri, ma una piccola camminata, quasi casuale, aspettando – pigramente – che i libri vengano da me.
Nessuna delle case editrici che espongono è dedicata esclusivamente alla letteratura di viaggio e poche hanno uno spazio espressamente dedicato ai viaggi, se si escludono le guide e i libri a carattere turistico.
Lo si riconosce di solito già dal titolo, dalla foto di copertina, il libro di viaggio. Di solito non ha una collocazione specifica, lo puoi trovare affogato tra gli altri negli scaffali in ordine alfabetico per autore, così che si deve supporre che per trovarlo tu sia andato alla ricerca non di un viaggio ma di uno specifico viaggiatore, o camuffato da romanzo impilato tra altri romanzi, come sui tavoli della Neri Pozza, che per riconoscerlo e toglierti ogni dubbio sul suo essere “di viaggio” devi leggere il retro di copertina.
Ma chi scrive di viaggi? Ci sono – tantissimi – scrittori famosi, soprattutto del XIX e della prima metà del XX secolo, che hanno scritto dei loro viaggi lunghi o brevi: opere considerate solitamente minori, che forse non sarebbero state pubblicate se l’autore non fosse diventato celebre per altro che ha scritto, libri che vien voglia di leggere più per posare uno sguardo ravvicinato e più intimo su un determinato autore (ipotizzando, forse sbagliando, che raccontando i suoi viaggi egli si sia svelato più che nei romanzi) piuttosto che per sapere com’era l’Egitto visto da Flaubert o la Russia di Lewis Carrol.
Alcuni, come Virginia Woolf, hanno scritto di viaggi all’inizio della propria carriera letteraria; forse si sentivano in dovere di farlo, per raccogliere materiali, per sperimentare la decantazione sulla carta delle impressioni avute. Scriveva Virginia in Italia, nel 1908: “Esistono molti modi di scrivere diari come questo. Comincio a diffidare delle descrizioni, e anche di quegli adattamenti spiritosi che trasformano l’avventura di un giorno in narrazione; mi piacerebbe scrivere non soltanto con l’occhio, ma con la mente; e scoprire la realtà delle cose al di là delle apparenze. In mancanza di questo – e non avrò mai il tempo né la costanza per pensare molto, lo so – cercherò di essere una serva onesta, e di raccogliere il materiale che più tardi potrà servire a una mano più esperta – oppure di suggerire allo sguardo immagini rifinite”.
La linea “Viaggi e viaggiatori” della collana Minimalia della Ibis pubblica molti libri di viaggio non contemporanei, tra cui Pierre Loti, Robert Byron (le opere meno note, “La via per l’Oxiana” esce con Adelphi) e Isabelle Eberhardt; loro sì, sono noti soprattutto per i viaggi che hanno fatto e per cosa ne hanno scritto.
Poi ci sono i best seller, c’è Pino Cacucci, Bill Bryson e i viaggi in posti incredibili (preferibilmente da solitari), insoliti o molto alla moda.
Li trovi o perché vai alla ricerca dell’autore già famoso oppure, guardando distrattamente su un tavolo, ti compare davanti un tizio con una tavola da surf sottobraccio o a cavallo di una Harley con giaccone di pelle e sguardo intenso, e lì scatta il meccanismo dell’immedesimazione; non compri quel libro perché vuoi informarti sulla situazione sociale in Nuova Zelanda o ti interessa la sorte degli Indiani d’America ma perché vuoi dimenticare per qualche ora chi sei, cosa fai, e immaginare viaggi intorno al mondo che non farai mai, se non altro perchè nessuno te li finanzierà – ma qualcun’altro l’ha fatto, e quel qualcun’altro potresti anche essere stato tu. Immagino – ma potrei sbagliare perché non l’ho letto – che I viaggi di Juppiter. Il giro del mondo in motocicletta di Ted Simon, pubblicato dalla LIT, con in copertina il motociclista di cui sopra, svolga questa funzione di appagamento sociale. La LIT, tra l’altro, ha ripubblicato anche La strada di Jack London, un romanzo autobiografico che è così autentico e davvero on the road da far impallidire il quasi omonimo e molto più celebrato romanzo di Jack Kerouac.
Poi c’è Bruce Chatwin, tutti suoi libri su pile una accanto all’altra, in diverse tinte pastello. Accanto ci sono Canetti, Cioran, qualche classico come il Milione di Marco Polo e poi tanta, tantissima letteratura sicuramente non di viaggio.
Per qualcuno Chatwin non è uno scrittore di viaggi (in primis per se stesso, probabilmente).
Ma che cos’è la letteratura di viaggio? Sembra così informe, casuale, persino “facile”; può indifferentemente stare tra la letteratura di intrattenimento, la saggistica o la narrativa. Non si capisce neanche se ce ne sia tanta o poca (probabilmente troppa). La più assente dagli scaffali è la scrittura di viaggio intesa come reportage, quella di impronta giornalistica, interessata a tematiche sociali, alla comprensione di un contesto culturale e politico; forse le si adattano di più la forma breve, gli articoli. C’è sempre Kapushinski, è vero, che riappacifica gli animi di chi si chiede se esista una letteratura di viaggio e se viaggiare serva davvero a comprendere qualcosa.
Altrimenti si può tornare a casa, non muoversi per almeno una giornata intera e adottare il punto di vista dell’immobilità, come scriveva la Yourcenar (grande viaggiatrice che non ha mai scritto apertamente dei suoi viaggi):
“Ho altresì compreso il vantaggio dell’immobilità in un punto del mondo: guardando l’avvicendarsi delle stagioni da uno stesso punto, si viaggia comunque; si viaggia con la terra”.