Testo e foto di Andrea Semplici.
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Intromissione nella intimità di un contadino. Ma Guddeta, oromo cristiano, non aspetta altro. Invita a entrare con il gesto appena accennato della mano e una luce abile negli occhi. Sa che avrà denaro in cambio di questi minuti dedicati a un frenji. ‘Vivo bene, grazie a Dio’, mi viene tradotto. Un fascio di luce accende la polvere nella casa di cicca, sterco e cartapesta del contadino. 63 anni, quasi dieci figli. Nessuno, qui, ti dirà il numero esatto dei suoi figli o dei suoi animali. Teme che il destino li possa condannare. Meglio non far sapere. Un vitello pascola nella casa di Guddeta. Spazio per gli animali. Terra che sa di escrementi. La merda è compagna della vita quotidiana della gente dei campi. La brace di sterco nello spazio del fuoco. Borse di tela come armadi appesi a un chiodo. Stracci sparsi. Un canestro, una sella, due pentole piccole e annerite. E’ domenica, solo le figlie sono andate con gli animali nei pascoli. Altre donne impastano dischi di merda e li dispongono a cerchio. E’ la sola energia. Non ci sono alberi qua attorno. C’è perfino un bar a Dalota, duecento abitanti, meno di venti famiglie, villaggio oromo dell’altopiano. Bottiglie vuote di awash wine.
Ho voluto sapere che cosa fosse Guddeta. Ho voluto definire. E non vi è una ragione. Dove saranno distesi lui e i suoi quasi dieci figli questa notte?
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