Testo e foto di Sandro Supplentuccio Abruzzese.
IL PONTE DI VEJA E IL SUO “PARON”
Partiamo dalla fine. Da un uomo anziano che beve e offre un rosso strutturato ai suoi commensali. Canuto e rubicondo, Bruno siede come chi ha ricevuto dalla vita buona parte di ciò che desiderava.
Nel suo locale, l’unico a lambire il pregevole sito archeologico di Veja, campeggia un articolo in cui viene definito “el paron del ponte”. E il titolo non ha tutti i torti.
VEJA
Nel ventre della Lessinia, a sud di Sant’Anna d’Alfaedo, da una grotta carsica e dalla consunzione paziente dei secoli, nasce un meraviglioso ponte naturale, un arco nato dal cedimento della precedente caverna calcarea, abitata dall’uomo fin dai centomila anni fa.
Una meraviglia che, nel corso del ‘400, convinse Andrea Mantegna a riprodurlo nell’affresco della Camera degli Sposi del Palazzo Ducale di Mantova, e vulgata vuole che abbia ispirato pure Dante, allorquando esiliato a Verona, ebbe modo di conoscere il luogo che così descrive: “Luogo è in inferno detto Malebolge,/tutto di pietra di color ferrigno,/come la cerchia che dintorno il volge”.
Ritorno a Bruno e alla sua soddisfazione: negli anni ’70, da una stalla, ha ricavato un enorme fabbricato che ora è un’azienda agricola e ricettiva, gestita dai suoi nipoti. Lui sente di aver raggiunto uno scopo assai importante, sicuro che quando verrà la sua ora altri proseguiranno il cammino avviato. E non è finita.
Dimenticavo la vicenda del carro armato americano. Il Comune l’ha ricevuto in dono da Roma non si sa come, e Bruno è riuscito a farlo collocare nel parcheggio di sua proprietà, a ridosso del sito archeologico. L’accordo prevede che l’amministrazione versi la cifra simbolica di un euro all’anno per vent’anni, e dopo si spera che il cimelio di guerra rimanga alla famiglia del “paron”. Va detto che il risultato estetico è del tutto scoraggiante, ma un carro armato rimane sempre un carro armato, e forse lui lo aveva sempre desiderato un cingolato, fin da quando era bambino, e magari collezionava soldatini.
Non smette di guardare lontano questo simpatico vecchio, emblema del più classico familismo italiano, tuttavia non riesco che ad osservarlo con comprensione, indulgenza. I tempi stanno cambiando, recitava un giovane Bob Dylan, e a pochi passi da qui, sulla collina di Vaggimal, nasce l’indiefolk del progetto C+C Maxigross, e la loro etichetta indipendente. Sono ragazzi che portano le loro radici dentro, pur avendo cura di andare oltre. E ciò fa veramente ben sperare. Questo ricco altopiano poco conosciuto e ancora autentico, ha spazzato via dal mio corpo anche solo il più piccolo senso di acrimonia verso l’umana gente, e per fortuna il ritornello citato infonde fiducia: i tempi stanno cambiando.
IL CUORE OSCURO DELLA SPLUGA DELLA PRETA
Con il fotografo Daniele Delaini siamo arrivati a Veja grazie alle indicazioni di Davide, gestore del Saloon Bar di Fosse, a milleduecento metri di altitudine. Nel preparare il caffè, con entusiasmo ci ha illustrato i suoi progetti per il posto, e va da sé che noi tifiamo per Fosse. Solo non capisco perché il suo locale sia ispirato al vecchio west, sebbene immerso in una di terra dai nomi e dai posti fatati: il Corno d’Aquilio, la Spluga della Preta, Vaggimal, Veja.
Non capisco cosa non ci consente di riconoscere la maestosità della nostra storia locale, un’attitudine peninsulare che finisce col laurearci in arte e tecnica delle importazioni estere, alla faccia della bilancia commerciale.
Tornando a questa faticosa luce di novembre, alle vacche e i tetti marmorei della Lessinia, mi sembrano fuori dal tempo pure le pozze, e gli abbeveratoi. Un rapace punta e plana, decide il destino della preda solo con l’istinto, senza peccato. In lontananza un puledro bruca, anche lui placa la vita, a suo modo.
Dal Corno d’Aquilio si vede Rovereto, a ovest domina il Baldo con la sua cresta e i conoidi che minacciano la Val d’Adige, ad est impera il trono dolomitico del “Carega”.
Davanti a noi l’abisso carsico denominato “Spluga della Preta”: una delle voragini più profonde e misteriose del mondo.
Dagli anni ’20 spedizioni di speleologi hanno provato ad esplorarla per conoscere i suoi anfratti, arrivando, dopo settimane di lavoro, fino a circa novecento metri di profondità. Tuttavia la Spluga resiste e serba a denti stretti le sue incognite, e a noi piace misteriosa, così com’è: Una bocca sdentata che alita correnti d’aria, la cui provenienza rimane avvolta nel buio, il suo cuore oscuro.
Eravamo partiti per la Valle dei Progni in tarda mattinata, diretti verso le viscere dell’umanità: la Grotta di Fumane. Il gentile referente didattico, l’archeologo sperimentale Alberto Castagna ce la descrive quale grandiosa testimonianza della preistoria antica che ha permesso di studiare Neandertal, Sapiens, e ambiente circostante lessino dai centotrentamila ai trentamila anni fa. Insomma, il posto giusto per iniziare una giornata intensa.
Arriviamo alla fine sulle alture di Negrar, insieme al buio, la discrezione della Lessinia lascia il campo all’immensa pianura sottostante: a sera inoltrata pulsano le arterie viarie, luccicano a intermittenza e si accalcano in affanno più di un milione di persone.
Sotto di noi muovono speranze e aspirazioni attanagliate dalle solite umane paure, e allora nella mia testa il Carega è l’Olimpo e la Spluga porta dritta dritta all’Ade; e ai nostri piedi, nell’americana Pianura Padana brulica l’umanità orfana di un Prometeo qualsiasi. Anche senza di noi continua la messinscena della moderna quotidianità.
Non ho più risposte di prima e forse ho ancora più pretese, allora preferisco concludere con alcuni versi sparsi del poeta Antonio Porta che dicono:
(…)non ci si rende conto di quanti siamo
di quanti tutti s’ingannino (…)
di quanto siamo convinti che non si può cambiare
che si parla e si scrive senza che nulla cambi
che per essere felici bisogna andare lontano
dove non c’è nessuno
dove c’è tanta gente.
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Sandro Supplentuccio Abruzzese
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