Fotografie di Daniele Stefanizzi | Presentazione di Edoardo Lucatti
È impossibile fare fotografia senza mettere in gioco un punto di vista.
Alcuni luoghi, però, aggrediscono qualunque punto di vista, perché sono nati e si sono costituiti per annichilirli, annullarli, distruggerli.
Auschwitz è uno di questi luoghi e non ha ancora perso la sua capacità di funzionare come “buco nero del senso”, nel quale tutti i significati finiscono per collassare uno sull’altro e diventare illeggibili, rinviando inevitabilmente a una domanda originaria – interrogazione che precede il linguaggio, che lo batte sul tempo, e che, dunque, non può avere risposta.
Auschwitz è lì, davanti all’obiettivo di Daniele Stefanizzi, ma non è a disposizione come lo sarebbe un qualunque altro oggetto di visione. Possiamo fotografare Auschwitz ma non lo staremo mai osservando. Possiamo visitare Auschwitz ma non saremo mai al suo interno. L’unica esperienza veramente autentica consentita allo scatto risiede nella percezione del suo tragico dissiparsi: mentre dichiarano il proprio fallimento, gli scatti di questa mostra riescono a viverlo fino in fondo. Per farlo, però, devono rinunciare a molte cose.
Ai colori, innanzitutto. Il bianco e il nero, nel lavoro di Stefanizzi, diventano allora necessari. Non si tratta della solita compiacente nostalgia antiquaria, né del tentativo d’approdare a una sedicente e impossibile verità documentaria. I colori vengono meno, piuttosto, perché solo così è possibile far emergere, nella loro dissecata purezza, le forze plastiche che organizzano e costruiscono questo immane Spazio della Fine.
Ecco dunque affiorare e, via via, stagliarsi la geometria apollinea ed euclidea del luogo deputato allo sterminio, i cui campi di forza visivi sono messi a regime da prospettive pulite, sterili, ancora intonse. La dominante ortogonale si ripete ovunque: nella struttura dei dormitori, dei blocchi, dei reticolati, dei vagoni, delle rotaie, dei punti di cremazione, perfino delle latrine. Quasi tutti gli angoli sono retti, definitivi, e impongono svolte secche, senza appello, che si ripetono per moduli, secondo un pattern che nella sua reiterazione meccanica finisce per affermare l’impossibilità dell’umano. Auschwitz è costruito come un luogo in cui la sofferenza è impossibile, non perché – ovviamente – nessuno vi abbia mai sofferto ma perché il luogo impedisce la manifestazione della sofferenza annullando nella propria metrica ortogonale qualunque ansa in cui possa enuclearsi una forma di umanità propriamente detta. E prima di lasciar morire i propri detenuti, infatti, il campo di concentramento aveva la precisa funzione di togliere loro lo statuto umano, non soltanto attraverso i numeri che i sopravvissuti ancora portano sulla propria pelle ma anche attraverso questa disposizione industriale e geometrica degli spazi, che si sottrae programmaticamente alla punteggiatura delle emozioni con cui siamo soliti radicarci nei luoghi della nostra vita, rendendoli umani.
Di qui la necessità, storicamente triste e tristemente storica, di alcuni feticci che in qualche modo possano raccontarci l’umanità che, nonostante tutto, lì c’è stata: una tuta appoggiata in un lavandino, che mollemente ne cade all’esterno, le borse da viaggio e i cesti di vimini dei prigionieri, affastellati nel buio. Daniele Stefanizzi li coglie con una certa sorpresa, come se avvertisse d’essere in presenza degli unici punti di sospensione geometrica, degli unici luoghi franchi nei quali la marcia ortogonale dello sterminio sembra tacere, o farsi più sorda, lasciando intuire, in filigrana, il tessuto debole e sfibrato di esperienze che molti detenuti, usciti di lì, non hanno mai trovato la forza e le parole per raccontare. Lo scatto della sua macchina si sofferma anche su alcune immagini dei prigionieri ma i nervi più vivi in cui ancora scorre il delirio di quel posto non sono i volti, messi a distanza nella rappresentazione ulteriore della fotografia fotografata; sono proprio gli oggetti, le tute, le borse, cose mute e divenute aliene a quel mondo in cui pure insistono. Cose di Auschwitz.
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