Note di viaggio di Gianni Palumbo
Immagini di Washington Square Park
Da tempo pensavo di fare una breve escursione nella memoria in relazione a un viaggio a NYC di qualche tempo fa, in particolare per riconsiderare alcune impressioni forti e colorate che arrivavano da un giro, con un mio lontano cugino americano (un biografo dei Beatles), al Village, in un magnifico giorno di primavera del 2009.
Dopo alcuni anni mi è tornata una gran voglia di Village e, per ora, provo a raccontarlo per come lo ricordo, utilizzando alcune immagini scattate allora, alcuni appunti ritrovati (anche solo nella memoria) e alcuni brani musicali che valgono per l’eternità. In parallelo il racconto si muove sulle parole di Bob Dylan, rigorosamente virgolettate!
Il mio giro, in compagnia di Thomas Frangione, è iniziato all’inizio della Fifth Avenue dove si apre il Washington Square Park, location per moltissimi film ambientati a NYC. Il parco, con poco verde in verità e molto cemento, è un luogo incredibile con artisti improvvisati, giocatori di scacchi, campioni di basket, pusher di marijuana, nonni e nipoti e tanti studenti che vivono nei palazzi della New York University che stanno tutt’intorno alla piazza.
Sul lato ovest di Washington Square Park si sviluppa la breve, intensissima e mitica MacDougal Street che si incrocia, tra le altre, con West 4th Street. E’ su MacDougal Street che si incontra il leggendario Café Wha?, un club musicale ancora oggi molto attivo “una sorta di caverna sotterranea senza licenza per gli alcolici, male illuminata, dal soffitto basso, un po’ come un’ampia sala per banchetti fornita di tavoli e sedie. Apriva a mezzogiorno e chiudeva alle quattro del mattino…”. Al Café Wha?, Bob mosse i suoi primi passi all’arrivo al Village nel 1961. Quando Dylan arriva nella Grande Mela ci arriva da esploratore “Finalmente ero arrivato a New York, città ragnatela, troppo difficile da capire, e io non ci volevo nemmeno provare. Ero lì per cercare i cantanti che avevo sentito nei dischi -Dave Van Ronk, Peggy Seeger, Ed McCurdy, … – e soprattutto per trovare Woody Guthrie. New York, la città che avrebbe dato forma al mio destino … Arrivai nel cuore dell’inverno. Il freddo era brutale e la neve si era ammassata in ogni arteria della città, ma io venivo dalle Terre del Nord già strette nella morsa del gelo, un piccolo angolo di mondo dove le nere foreste gelate e le strade ghiacciate non mi facevano paura. Quelle erano difficoltà che potevo affrontare. Non cercavo né denaro né amore. Ero in uno stato di esaltata consapevolezza, ben deciso a seguire la mia strada, privo di senso pratico e visionario dalla testa ai piedi. La mia mente era tesa come una trappola e non avevo bisogno dell’approvazione di nessuno. Non conoscevo neanche un’anima in quella buia e gelida metropoli, ma le cose sarebbero cambiate presto, molto presto”.
Il Cafè Wha? sembra straordinariamente immutato. Certo, manca Dylan, col suo sguardo magnetico e la chitarra che canta folk, tutto il folk bello dell’epoca, ma porti con te la consapevolezza che quel posto è così e lui ci è passato ed ha incontrato i suoi beniamini o altri sconosciuti artisti del Village. Tra questi Richy Nelson, che Bob aveva avuto modo di apprezzare alla radio, un coetaneo dalle esperienze diverse “… Richy, come al solito, cantava versi che sembravano passati con la candeggina. Versi scritti apposta per lui, probabilmente. Lo sentivo simile a me, è vero. Avevamo quasi la stessa età, probabilmente ci piacevano le stesse cose, eravamo della stessa generazione anche se le nostre esperienze di vita erano state così diverse, lui cresciuto nell’Ovest in uno spettacolo televisivo per famiglie. Era come se venisse da un Walden Pond dove tutto era sempre ottimo e abbondante, mentre io emergevo da cupe foreste infestate da demoni – stessi boschi, solo un modo diverso di vedere le cose”.
Le insegne coloratissime del Café Wha? riverberano di quei colori anni ‘50/’60, quasi perfettamente intatti, poco sbiaditi dal tempo, a rimarcare una continuità nel passaggio degli artisti, a caratterizzarli con pennellate di quei colori che rimangono addosso! Suoni nel club per te stesso e per gli avventori, tu segni il club e il club segna te e ci passano centinaia di artisti di varia tendenza … “Al Cafè Wha? la mia preferita era Karen Dalton, una cantante di blues bianca, alta, terragna, scheletrica e focosa. La conoscevo già da prima, mi era capitato di incontrarla l’estate precedente in un folk club di una cittadina di montagna nei pressi di Denver. Karen aveva una voce come Billie Holiday, suonava la chitarra come Jimmi Reed e ci metteva l’anima. Suonai con lei un paio di volte”. http://www.youtube.com/watch?v=er8PVjBB5xM
Il Village negli anni ’60 era un reticolo di strade che odoravano del vecchio continente, si respirava aria europea (ci abitavano anche diversi italiani data la prossimità con Little Italy) e quando ci arriva Dylan domina incontrastato il folk per quelle strade, folk che presto sarà sconvolto dall’ondata pop-rock che irromperà sulla scena anche e soprattutto grazie a Dylan, al Jazz e agli intellettuali della beat generation che sconvolgeranno l’assetto fino ad allora in antico equilibrio.
Il Greenwich Village, all’arrivo di Dylan, era la dimora dei folk singer, di quel folk vissuto (non quello dei filologi), quello dei vicoli e dei locali piccoli e fumosi, il luogo dove si rifugiarono gli “esuli” e i sopravvissuti del maccartismo che tramite la canzone di protesta provavano a ricucire il tessuto politico e democratico. Il Village era, quindi, diventato in qualche misura la capitale del folk e al contempo uno dei centri della nascente protesta progressista nella scena politica e sociale americana.
Al 114 di MacDougal Street, tra Bleecker St. e West 3rd Street, si trovava il Gaslight Cafè, oggi al suo posto vi è un anonimo bar (che si chiama Alibi!). E Dylan al Gaslight incontrò per la prima volta Dave Van Ronk che a suo dire “era appassionato e mordace, cantava come un soldato di ventura e sembrava uno che l’avesse pagata cara”. Considerato da Dylan “il re della strada, dove regnava supremo”, di Van Ronk e del Gaslight mi piace riportare queste narrazione che è poesia pura … “In un freddo giorno d’inverno, vicino all’incrocio fra Thompson e 3rd Street, in un fluttuare di neve leggera, mentre un debole sole filtrava tra la foschia, lo vidi che camminava nella mia direzione in un gelido silenzio. Era come se il vento lo stesse spingendo verso di me. Gli volevo parlare ma c’era qualcosa che me lo impediva. Lo vidi andar via e scorsi il lampo nei suoi occhi. Era stato un attimo fuggente, e io me l’ero fatto scappare. Volevo suonare per lui. … A paragone del Gaslight, tutti gli altri locali lungo la strada erano miserabili buchi senza un nome, posti da poco dove qualcuno passava il cestino alla fine dell’esibizione o piccoli caffè dove era l’artista stesso a passare il cappello. Io, comunque, cominciai a suonare in tutti quelli che potevo. Non avevo scelta. Le stradine erano piene di quei locali … almeno una volta devo aver suonato in tutti i locali. Molti stavano aperti fino al sorgere del sole – lampade a cherosene e segatura sul pavimento, alcuni forniti di panche di legno, un buttafuori forzuto alla porta, nessuna tariffa d’ammissione e i proprietari che cercavano di farti consumare più caffè che potevano. Gli artisti stavano in piedi o seduti nel riquadro della vetrina, ben visibili dalla strada, oppure venivano messi sul lato opposto, a cantare a pieni polmoni rivolti alla porta. Né microfoni né niente del genere. Gli scopritori di talenti non venivano in quelle tane, erano scure, incrostate e caotiche”
E in effetti ancora oggi su MacDougal Street vi è un brulicare di locali. Che fascino, che portento poteva essere in quegli anni! Fu in queste “tane” che Dylan incontrò i personaggi che aveva cercato … oltre a Van Ronk, Richie Evans, Sonny Terry, Pete Seeger e tanti alti. Fu suonando a un dollaro a serata che Dylan costruì il suo mito nella scena bohémienne del Village. Altro luogo fondamentale su MacDougal Street, tra Bleecker e la 3rd è il Folklore Center, una stanzetta in cima ad una rampa di scale, con una sua grazia d’altri tempi. Il Folklore Center aveva un proprietario appassionatissimo di folk, Izzy Young (aveva aperto nel 1957), il suo centro “stava al crocevia di tutto quello che succedeva nel mondo del folk e a ogni momento poteva capitare di imbattersi in folksinger veri e propri. Certi si facevano arrivare li anche la posta. … Per chi voleva sapere che cos’era la musica folk, quello era il posto dove ci si poteva fare un’idea non solo passeggera. … Il mondo moderno, con tutte le sue folli complicazioni, destava molto poco interesse in me. Non aveva rilevanza, non aveva spessore, non mi seduceva. Le cose che davvero mi emozionavano, che per me restavano di vera attualità, erano l’affondamento del Titanic, il ciclone di Galveston, John Herny che menava colpi con il suo piccone d’acciaio, John Hardy che sparava a un uomo mentre lavorava alla linea ferroviaria della West Virginia. Tutto questo per me era il presente, trasformato subito in canzone ed eseguito così com’era, sotto il cielo. Queste erano le notizie che per me erano importanti, che io seguivo e delle quali prendevo nota”.
Fu proprio al Folklore Center che Dylan suonò qualcosa per Van Ronk, che lo guardò in faccia per parlargli … “Van Ronk mi guardò con curiosità, e con l’aria di uno che non fa complimenti mi chiese se mi andava di fare le pulizie. Gli dissi di no, che non mi andava e che se lo poteva scordare, ma potevo suonare qualcosa per lui? … Gli suonai Nobody Knows When You’re Down ad Out. Dave mostrò di apprezzare, mi chiese chi ero e da quanto tempo stavo in città, poi aggiunse che potevo farmi vedere alle otto o alle nove di sera e suonare un paio di pezzi durante il suo spettacolo. … La mia strada era stata lunga e avevo cominciato dal niente. Ma adesso il destino stava per manifestarsi e io avevo la sensazione che stesse guardando dritto in faccia a me, e a nessun altro”! http://www.youtube.com/watch?v=_MvZKl-xA64
Girovagando per il Village hai la sensazione di essere in un luogo sacro, nel quale frotte di artisti, scrittori, impostori, attori e barboni hanno invaso per decenni, per secoli ormai, quelle vie brulicanti di gente, ergendole a Tempio. Sulla 7th Avenue passi davanti alla casa dove aveva vissuto Walt Whitman, sulla 3rd Street transiti nei pressi dell’abitazione dove visse, per un breve periodo, Edgar Allan Poe. O ancora al 206 East 7th Street puoi vedere l’appartamento di Allen Ginsberg’s. Ma è stato arrivando al 161 West di 4th Street, tra Jones Street e Sixth Avenue che mi sono commosso e ho pianto: http://www.youtube.com/watch?v=tRH-NvWcG28 seduto sulle scale di quello che fu il primo appartamento di Dylan a NYC, che condivise con Suze Rotolo, la compagna immortalata in foto con Dylan, abbracciati e a passo felpato, nella gelida neve newyorkese! http://www.youtube.com/watch?v=rsNkWKj_iME
“Non so esattamente quando mi venne in mente di scrivere canzoni. Anche volendo dare un’idea di come io vedevo il mondo, non sarei stato capace di venir fuori con niente di lontanamente paragonabile ai versi delle canzoni folk che cantavo. Sono cose che accadono per gradi. Non ci si sveglia un bel giorno con il bisogno di scrivere canzoni, specialmente se si canta già, se ne hanno molte in repertorio e ogni giorno se ne imparano di nuove. Può darsi che capiti di convertire qualcosa che esiste già in qualcosa che non esiste ancora. Forse è questo l’inizio. Succede che uno vuole fare le cose a modo suo, vuole vedere con i suoi occhi quello che si nasconde dietro la cortina di nebbia. Non sono le canzoni a venire da te e a farsi invitare in casa. Non è così facile. … A volte si sente una canzone che fa fare un balzo in avanti alla mente. Qualcosa di simile succede nel modo di vedere le cose. Non ho mai diviso le canzoni in belle e brutte, le ho solo considerate come tipi diversi di belle canzoni.
Ce ne sono alcune che riportano fedelmente i fatti della vita. Una che sentivo spesso in giro si chiamava I Dreamed I Saw Joe Hill. Sapevo che Joe Hill era un personaggio vero e importante, ma non sapevo chi realmente fosse e così lo chiesi a Izzy, al Folklore Center. Dalla stanza nel retro Izzy tirò fuori alcuni fascicoli su Joe Hill e me li diede da leggere. Quello che vi trovai avrebbe potuto uscire da un romanzo poliziesco. Joe Hill era un immigrato svedese che aveva combattuto nella guerra contro il Messico. Aveva condotto un’esistenza nuda e misera, intorno al 1910 era stato un militante sindacale dell’Ovest, una figura messianica che voleva abolire l’ordinamento capitalistico del lavoro, operaio meccanico, musicista e poeta. Lo chiamavano il Robert Burns degli operai.
Aveva scritto Pie in the Sky http://www.youtube.com/watch?v=DXGuHCsjXro ed era stato il precursore di Woody Guthrie. Questo era tutto quello che avevo bisogno di sapere. Poi, nello Utah, era stato condannato per omicidio in base a prove indiziarie e fucilato. La storia della sua vita è intensa, profonda. Era un organizzatore sindacale per conto dei Wobblies, il settore militante della classe operaia americana. Viene messo sotto processo per aver ucciso il proprietario di una drogheria e suo figlio in una rapina a mano armata da pochi dollari e la sua unica difesa consiste nel dire ‹‹Provatelo! ››. Il figlio del droghiere, prima di morire, spara un colpo a qualcuno, ma non ci sono prove che la pallottola colpisca un bersaglio, Joe però presenta una ferita da pallottola e la circostanza è considerata incriminante. Quella stessa notte sono cinque le persone ferite da un’arma da fuoco. Vengono curate nello stesso ospedale, poi rilasciate, e tutte spariscono. Joe sostiene che si trovava altrove al momento del crimine, ma non dice dove e con chi. Non fa nessun nome nemmeno per salvarsi la pelle. La supposizione di tutti è che ci sia coinvolta una donna e che Joe non voglia esporla alla vergogna. La faccenda diventa ancora più strana e complicata. Un amico di Joe sparisce il giorno dopo.
Tutto si fa contorto. Joe è adorato dai lavoratori dell’intera nazione, minatori e lavoratori dei macelli, pittori di insegne e fabbri ferrai, stuccatori, installatori di canne fumarie, metallurgici. Chiunque fossero, Joe li aveva uniti e aveva combattuto per i diritti di tutti, aveva rischiato la sua vita per rendere la vita migliore alle classi più povere, agli svantaggiati, ai lavoratori peggio pagati e peggio trattati di tutta la nazionae. Se leggete la sua storia … lo capite bene che non è il tipo di persona che si mette a rapinare e a uccidere un droghiere a caso. Non rientra minimamente nel suo carattere. E’ impossibile che abbia fatto una cosa del genere per quattro soldi. Tutto, nella sua vita, parla di onore e di giustizia. Era un instancabile viaggiatore e un protettore dei deboli in servizio di pattuglia permanente. Ma per i politici e gli industriali che lo odiavano era solo un criminale incallito e un nemico della società. Da anni cercavano l’occasione per liberarsi di lui. Joe era stato considerato colpevole ancora prima che cominciasse il processo.
L’intera storia è stupefacente. Nel 1915 le marce e le manifestazioni in sua difesa riempirono le strade di tutte le grandi città americane, Cleveland, Indianapolis, St. Louis, Brooklyn, Detroit e molte altre, dovunque ci fossero lavoratori e sindacati [non torna in mente, forse, la storia di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti??? NdR]. Fino a quel punto lo conoscevano e lo amavano. Perfino il presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, cercò di convincere la magistratura dello Utah a riprendere in mano il caso, ma il governatore dello Utah fece marameo al presidente. Quanto tutta sta per finire, Joe dice: ‹‹Spargete le mie ceneri dovunque tranne che nello Utah ››.
Joe Hill venne scritta non molto tempo dopo quei fatti. Di canzoni di protesta ne avevo sentite parecchie … ed erano tutte migliori di Joe Hill. Le canzoni di protesta sono difficili da scrivere senza dar loro un tono che sa troppo di predica. Rischiano di venire fuori a una sola dimensione. Bisogna saper mostrare alle persone un lato del loro carattere che loro stesse ignorano. Joe Hill non ci va neanche vicino, ma se mai c’è stato qualcuno che poteva ispirare una canzone, quello era lui. Joe aveva quella luce negli occhi. … Non scrissi la canzone per Joe Hill. Ci pensai, ma non lo feci. La prima canzone di una certa importanza che finii per scrivere, la scrissi per Woody Guthrie”. http://www.youtube.com/watch?v=tlm1kzWTrOI Una storia, quella di Joe Hill che rapisce e affascina Dylan, il quale da tempo era all’inseguimento di Woody Guthrie e scopre che altri avevano combattuto come Guthrie per maggiore giustizia e vera libertà.
Song to Woody
testo di Bob Dylan
Musica: rielaborazione della melodia di “1913 Massacre” di Woody Guthrie
Sono qui a un migliaio di miglia da casa,
camminando per una strada già attraversata da altri.
Guardo il tuo mondo di persone e cose,
i tuoi poveri ed i contadini e le principesse ed i re.
Ehi, Woody Guthrie, ti ho scritto una canzone
Che parla del buffo mondo che abbiamo davanti.
Sembra malato, è affamato, stanco e dilaniato,
sembra morto ma è appena nato.
Ehi, Woody Guthrie, ma io so che tu sai
Tutte le cose che sto dicendo e molte altre ancora
Ti sto cantando questa canzone, ma non è abbastanza,
perché non ci sono molti uomini che hanno fatto le cose che hai fatto tu.
Questa è per Cisco, per Sonny ad anche per Leadbelly
E per tutte le brave persone che hanno viaggiato insieme a te.
E’ per i cuori e per le mani delle persone
che vengono con la polvere e se ne vanno con il vento.
Devo partire domani, ma potrei partire oggi,
Da qualche parte, lungo la strada, un giorno
L’ultima cosa che voglio fare
E poter dire che ho fatto anch’io tanta strada
Ho avuto la netta sensazione, zigzagando per le strade del Village, cercando a volte di fare proiezioni capaci di indagare negli aspetti del “Dylan politico”, che quel luogo pullulasse ancora dei fantasmi e dell’impegno politico e per i diritti civili di molti artisti degli anni ’60 e ’70. Occorre sottolineare che Dylan, insieme a Joan Baez, cantante, amica, amante, al Newport festival cantò With God On our Side nel 1963 e molte altri brani “politici” http://www.youtube.com/watch?v=S1TKUk9nXjk . Ad agosto dello stesso anno si unirono alla marcia dei 200mila al seguito di Martin Luther King, interpretando, tra le altre, anche Blowin’ in The Wind. Da quel momento fu universalmente riconosciuto come la voce di un’intera generazione (appellativo per altro rifiutato da Dylan che aveva iniziato a temere la celebrità).
Negli anni successivi Dylan lavora a una fusione tra folk e rock, la sua musica annuncia cambiamenti fino alla famosa (e molto criticata) conversione dall’acustico all’elettrico. L’album intermedio, che annuncia questo passaggio, fu Bringing It All Back Home del 1965 e poi … poi la storia di Dylan è lunga, articolata, affascinante e complessa e dura tutt’ora!
Il Village, il luogo dove nacque la cosiddetta “Controcultura” già dalla fine degli anni ’40 con Pete Seeger, trova in Dylan probabilmente la massima espressione, il più potente detonatore. Ma molti altri segnano quei luoghi e si intrecciano tra loro a forgiarne il carattere bohemienne, ancora oggi lontanamente e parzialmente visibile. Prima di tutto i poeti della beat Generation che incontravano nelle strade e nei locali del Village tutta la cultura progressista americana. Ma anche il sound più leggero, meno impegnato, e forse più sognante, come quello di Simon e Garfunkel è passato da queste parti, come non ricordare Bleeker Street!!! http://www.youtube.com/watch?v=x0Blo9jMCbA
Il Village -un luogo che nei Sixties rappresentò la migliore rinascita del folk, il rifugio di artisti, musicisti, sognatori strampalati (ma anche grandi sognatori), poeti disadattati (ma anche grandi poeti), rivoluzionari creativi- è ancora oggi un luogo frizzante, non più antagonista, ma ancora in grado di far sognare per la sua straordinaria storia, per gli intrecci, per la musica dei suoi locali, per il brulicare di gente mai uguale. Consigliato a tutti! Emozioni garantite!!!