Testo di Ada Bellanova e foto di Bo Chen

Lei si fa chiamare Jane. Jane Show, perché il suo vero nome suona più o meno così. I cinesi seguono questo criterio per il loro battesimo occidentale. Ma Jane è anche un omaggio al coraggio e all’intelligenza della Jane Eyre di Charlotte Bronte.
Il lieto fine della sua storia è un eterno presente in cui guarda il lago, la luce blu sul far della sera, si pulisce gli occhiali e apre un libro. Sembra che tutto sia stato sempre così. Invece no. Invece la trama è fatta di ostacoli, di percorsi tortuosi e inattese rivelazioni. E attraversa più di mezzo secolo di vicissitudini cinesi. Alla tenue luce di una candela.
La Pagoda Baochu svetta nel folto del verde affacciandosi sul lago occidentale, la perla di Hangzhou. È più discreta dell’altra, la Leifeng, che invece sorveglia la sponda sud coi suoi cinque piani moderni che tentano di restituire la memoria di un passato fatto di distruzioni e rinascite.

La si può raggiungere almeno in due modi, ma in ogni caso bisogna camminare un po’. Il modo più veloce è da uno dei parcheggi lungo il lago: due scalinate, una ripida che un po’ scoraggia dal basso ma che arriva dritta dritta lì, l’altra che un po’ devia costeggiando antiche incisioni buddhiste nella roccia. A me invece piace arrivarci da lontano. Il 318 si ferma proprio all’imbocco del sentiero che passa dal tempio taoista, dove monache gentili tengono in ordine e regalano sorrisi ai viandanti, mentre appena più in là alcuni vecchi – sempre gli stessi – riposano all’ombra ascoltando il canto degli uccelli e delle cicale in gabbia e bevono tè. È una strada agevole, segnata dai soliti gradini dei percorsi cinesi, e sul finire attraversa grossi massi miracolosamente in bilico, su cui qualcuno si arrampica per scattare foto prodigiose. Poi eccola, la Pagoda Baochu: chiara, sottile. Sfidare i giorni più caldi vuol dire guadagnare luoghi meno affollati e una vista più tranquilla dall’alto verso l’azzurro del lago. Le barchette che beccheggiano sulla superficie liscia sembrano dipinte. La cornice è la distesa di fiori di loto che ondeggia lungo la costa. E anche se il caldo è torrido, l’umidità fastidiosa e mille e più di mille sono gli insetti attorno, il paesaggio sa essere una valida ricompensa. Da qui quasi si dimentica il traffico e la confusione di Longxiangqiao, di Yan’an Road, le insegne invadenti pure di notte, l’odore forte di tofu in salamoia dei chioschi meno chic. C’è pace e si aspetta la brezza che certe volte dal lago viene a smuovere i salici, le magnolie.
Così è andata la prima volta. Dopo la passeggiata ci siamo spinti appena più in là e abbiamo trovato la “casa di Jane”: silenziosa e avvolta nel verde, tutta tesa a osservare le acque da lontano, con il suo balcone di tavolini che dicevano “Siediti siediti”. Dentro cosa c’era? Sul lato destro i resti di un vecchio chiosco di bibite e gelati non incoraggiavano a farsi grandi aspettative: l’insegna scolorita pubblicizzava cremini al fagiolo, di quelli che la mia lingua, dopo un unico deludente assaggio, si sarebbe ricordata per mesi, accettando paziente la calura e l’impossibilità di placarla con i ghiaccioli.
Ma forse quella era una delle solite case da tè che si aprono su tutto il perimetro del lago promettendo la primizia del Longjing e semi di zucca, che sanno anche essere eleganti e quiete per carità, ma pure insopportabilmente chiassose quando si aprono i buffet del pomeriggio e la bevanda diventa per i più solo una scusa per ingurgitare zampe di gallina, zuppe di mais e becchi di anatre.
Invece no. Al rincorrersi di piccoli salotti di casa tutti garbatamente freschi da cui proveniva la seduzione colorata dei succhi di frutta appena spremuti e dei vassoi di ananas e anguria si aggiungevano i libri su tutte le pareti. Nel sottovoce dei camerieri sarebbe stato piacevole leggere, alzando ogni tanto lo sguardo sul lago. Peccato non essere in grado di farlo. Peccato che i caratteri stessero lì, seducenti ma muti per me. Mi veniva, così tutta insieme, una nostalgia di casa, di storie accessibili. Però tra tutti quei volumi c’era pure traccia di me, di noi: c’era Kan bu jian de chengshi, c’erano Le città invisibili.
Poi è arrivata lei.

La storia di Jane comincia qualche anno prima della Rivoluzione culturale. A Wenzhou, la città da cui provengono la maggior parte dei cinesi che vivono in Italia, nello Zhejiang. La sua famiglia sapeva leggere e scrivere e questo bastava. A volte, sapete com’è, è sufficiente una scintilla per fare un fuoco. E così la piccola Jane si innamorò dei libri. Andava a scuola con gioia. Le piaceva imparare, conoscere nuove storie, adorava la carta e le lettere, e leggeva allora, leggeva con grande avidità, come dovesse placare una fame ben più grande di quella del corpo. Mi piace immaginarmela in un angolo tranquillo, verde, di quelli che ancora la Cina, se si cerca bene, sa regalare: una bimba con il viso tondo e le trecce scure all’ombra di una magnolia, il profilo riflesso nel laghetto delle carpe.

Poi venne la Rivoluzione. Tutte le scuole vennero chiuse, i libri proibiti.  A lei non restò che la nebbia di una casa senza storie. Solo ogni tanto qualcuno sussurrava attorno al fuoco di leggende e imperatori e si faceva luce. Sua madre si ostinava a farla esercitare nei caratteri: che non si perda ciò che si è acquistato. Ma in fondo non era tempo di pensare ai racconti. Piuttosto tempo di vendere il sangue (*1), di bruciare i violini (*2). 

Quando finì di ripetersi nella testa tutte le storie che aveva imparato, quando le ebbe tutte segnate sulle pietre lungo il lago, di nascosto alle guardie ma chiare ai pesci, ai fiori, allora la vide la signora Chen, la sua vicina. La vide affliggersi. Senza enfasi, si intende. Compostamente, con le ciglia all’ingiù, si viveva la sua fame, ben più nera di quella che le assottigliava la vita, le segnava le costole. E fu allora che lo fece, le passò il primo libro, nascosto in un cesto, una coperta di foglie di cavolo e due uova da scambiare. Cominciò così, tutte le prime albe della settimana, il rito del dono proibito. Giunsero inaspettate le nuove storie e, al di là dell’odore di zuppa e riso che avvolgeva le pagine e che sapeva saziare lo stomaco, ben altri sapori, altri odori giunsero. Sollecitazioni sensoriali inedite, alternativamente dolorose e gradevoli, le causavano i caratteri. 

Anche suo fratello dovette capirlo che lei era diversa, che a saziare quella fame non bastavano i regali della signora Chen. Così cominciò a cercare i libri di contrabbando. Oh quanto stiamo rischiando, disse sua madre la prima volta, mettendosi le mani nei capelli. Poi non resistette alla luce degli occhi di sua figlia quando la sera si riempirono dei caratteri illuminati dalla candela. 

Più tardi piano piano le scuole vennero riaperte ma bastava così poco per essere chiamati intellettuali e gli intellettuali, pure quelli giovani, venivano costretti ad andare lontano, nelle province più remote, a disimparare i libri coltivando una terra che dava più pietre che patate.

La speranza si infranse. La bimba con le trecce restava a casa, perché troppo grande era il rischio. Sua madre la supplicò di capire. E lei sospirò e continuò a leggere in casa. Passarono gli anni. Si allungò la sua ombra sotto la magnolia, si accorciarono i capelli, finché “Puoi uscire,   andare a lavorare” le disse suo padre. Aveva sedici anni e pensò che sì, era meglio uscire, andare in fabbrica.

Ma non smise di amare i libri, non smise di leggere, ogni giorno, dopo il lavoro. La sua mente si arricchiva, imparava. Alla tenue luce di una candela venivano i pensieri, come gli spiriti delle leggende, e le dicevano “Scrivi, scrivi”. Così lei cominciò a scrivere, dei libri della signora Chen, di quelli comprati dal fratello, del gusto delle parole, delle storie sussurrate durante la Rivoluzione e di quelle nuove, che ancora scopriva, e non c’era stanchezza che potesse trattenerla. 

Fu un’altra operaia a metterle il tarlo in testa: “Con tutto quello che sai puoi andare all’Università; prova a fare l’esame!” E stette lì quell’invito a scavare, mentre lei lavorava e si sistemava i capelli sotto il fazzoletto. 

Jane Eyre era un personaggio che le piaceva, appassionata e indipendente. Che poi, chissà per quali strani percorsi le era giunto quel libro. E chi l’avrebbe detto che quel romanzo avrebbe deciso il suo destino. 

All’ufficio d’iscrizione segnò lingua e letteratura inglese. 

Qualche anno più tardi Jane si trasferì ad Hangzhou. Aveva conosciuto un uomo all’università, un uomo intelligente e pieno di cultura. Com’è a volte che le anime affini si riconoscono, vanno verso ciò che gli somiglia. Sposata e incinta, si mise a scoprire la nuova città. Che era piena d’acqua e di verde. 

Mentre si alzavano i grattacieli, mentre si spianavano le colline, il Qiantang scorreva davanti ai salici e alla pagoda delle Sei armonie e scorrevano i suoi pesci. I sentieri di Jiuxi erano una bella passeggiata. E che meraviglia quando si riempivano di nebbia: sembrava di vivere in una di quelle antiche leggende di spiriti.  

Venne un figlio, a cui leggere vecchie e nuove storie. Andava con lui, mano nella mano, a guardare i pesci sul lago; spendeva qualche soldo per andare in barca verso la sponda settentrionale, da dove la sera spuntava, bianca bianca nel verde cupo del parco, la pagoda.

Vennero gli amici di suo marito a parlare di letteratura e quadri. Benché non sempre potesse accampare ragioni, sebbene lei fosse prima di tutto la moglie di un critico famoso, le piaceva avere l’opportunità di sapere, conoscere. 

Intanto la Cina cambiava, crescevano i cartelloni pubblicitari, la strada lungo il Qiantang si allargava e su quella le macchine si facevano più grandi e numerose. 

 

Cambiò d’un tratto pure la sua pancia, cambiò la sua pelle. E venne la malattia. Così vulnerabile si sentì, come quando da bambina le avevano tolto i libri. Mentre le si corrompeva il sangue – i valori alterati, il corpo non rispondeva – pensò che non era giusto andarsene senza lasciare qualcosa. A suo figlio, a suo marito, a tutti. 

In un pomeriggio disperato le capitarono tra le mani quei fogli scritti da ragazzina alla luce di una candela. Forse era una follia, ma ai moribondi non si nega niente. Nel tempo che aveva ancora a disposizione voleva un posto suo, fatto di libri e tè. Forse più delle medicine poté il desiderio, forse è vero che i libri curano, forse semplicemente doveva essere così: la malattia se n’andò a poco a poco. Il progetto rimase invece, con tutta la forza di un voto da adempiere. 

Così fu che nacque il primo posto di Jane, piccolo e in periferia, a due passi da casa, quel tanto che bastava per prendersi ancora cura della sua famiglia. 

Le librerie non sono l’impresa ideale per chi cerca la ricchezza. E Jane qualche problema con i soldi in effetti lo ebbe. Quando l’affitto del locale aumentò però, anziché rinunciare, decise di scommettere di più, trasferire il suo angolo in centro, vicino al lago, trasformarlo in una casa della cultura. 

Le arrivò un giorno la proposta di aprire accanto alla Pagoda Baochu, sì, proprio quella che andava a osservare con suo figlio dal lago. Si trattava di rilevare una vecchia sala per giochi d’azzardo. Il posto era incantevole, ma la gente non avrebbe continuato ad associarlo ai tavoli per mah jong, ai soldi, all’alcool? E poi la collina era pur sempre difficile da raggiungere, c’erano le scale che avrebbero probabilmente scoraggiato i più. Che fare? Non sarebbero venuti forse solo i vecchi clienti, convinti di avere di nuovo un posto all’ombra dove ubriacarsi con i dadi e le carte? Come convincere gli abitanti di Hangzhou che lì non si giocava più, che invece si leggeva, si parlava di cultura? 

Il quaderno dei conti, la lista dei buoni propositi, i pareri degli amici… La luce della candela.  Pensò: “Scrivo da una parte tutti i vantaggi che mi verrebbero da un posto così, dall’altro gli svantaggi”. 

 

A guardare bene la situazione con i suoi occhi, non c’era che un aspetto veramente negativo: le scale. Ma Jane aveva imparato ad essere ottimista. Si trattava davvero di uno svantaggio? E il successo delle palestre allora? E non era forse più conveniente fare attività fisica all’aria aperta, senza dover sborsare un soldo, potendo beneficiare dell’ombra e dell’ossigeno degli alberi, della vista del lago? La gente sarebbe arrivata, certo che sì, e lei avrebbe offerto i libri, l’arte, accompagnandoli con tè e spremute.

In questo modo, grazie all’ostinazione appassionata, è nata la casa di Jane, che accoglie e rilassa, dopo la salita, un luogo che incoraggia la conoscenza grazie agli incontri letterari e artistici, e, anche se, pure in Cina, come in tutto il resto del mondo, le distrazioni sono tante, troppi gli input, i libri resistono. Persone di tutte le età hanno imparato a frequentarlo. Bambini e adulti, studenti con pc al seguito, anziani lettori. No, nessuno dei vecchi giocatori. Almeno che lei sappia. Ma forse qualcuno c’è, e si è convertito al nuovo corso delle cose. 

Si sta facendo buio in fretta. La luce blu scende sul lago. 

Le chiedo che libri italiani conosce. Lei cita Dante, il Decameron, Pinocchio. Poi cerca sullo scaffale Le città invisibili. 

Mi viene da pensare agli strani percorsi che fa la letteratura. Agli strani percorsi che fa la vita. Mi sembra di aver percorso più di mezzo secolo di storia cinese “alla fiamma di una candela”. Poi, in silenzio, guardiamo il lago. E penso che questa luce blu forse l’avrà vista pure lui, Marco Polo, quello vero, quando Hangzhou era Quinsai, e chissà, chissà che avrà pensato. 

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(*1) Il riferimento è a Hua Yu, Cronache di un venditore di sangue.

(*2) La Rivoluzione Culturale portò alla distruzione di moltissimi strumenti musicali.