Testo e foto di Cecilia Ferrara
Quando Erodoto mi ha chiesto di scrivere una ‘Cartolina’ da Amatrice per raccontare i giorni del terremoto ho avuto difficoltà a capire da dove cominciare.
La prima cosa che mi è venuta in mente è la polvere. La polvere viene dalle macerie del terremoto, dalle case sventrate è già sparsa nell’aria e si appiccica a tutto, vestiti, scarpe, borse ti si inficca in gola e nel naso e ti fa sentire le mani perennemente sporche. La polvere aumenta si rigenera con i soccorritori che cercano i dispersi, i cani che scavano, con i nuovi crolli dovuti alle scosse di assestamento, e a tutta la gente che passa e ripassa sopra le macerie. Ogni volta te la senti negli occhi nei capelli e in gola.
Oppure sarebbe meglio iniziare dalle cose? Dagli oggetti che sono stati sbalzati fuori, o che spuntano dalle montagne di detriti: un libro, una bolletta non pagata, il cappellino di un bambino. O dallo spettacolo irreale delle case cadute a metà dalle quali si vedono gli interni ancora ben conservati, il letto a baldacchino, la credenza, i quadri appesi alla parete rimasta in piedi come se fosse la scenografia di uno spettacolo teatrale.
Oppure sarebbe bene parlare proprio di lui, il terremoto, che continua crudele con gli aftershocks le scosse di assestamento. C’è quella del secondo giorno alle 14.30 che ci colpisce in pieno giorno. Siamo tutti lì, le televisioni, i giornalisti, gli abitanti, i volontari e i soccorritori. La terra trema, la mia collega mi tira in mezzo di strada lontano dalla casa crollata che è pericolosa, io inizio a chiedere concitata di chiamare l’operatore che si è separato da noi. Si sente un crollo, tra le macerie del centro storico, una nuova nube di polvere si rialza, alcune persone rivivono la scossa di due giorni prima e iniziano a piangere. E c’è la scossa alle 6.30 del 26 agosto, magnitudo 4.8, che ci sveglia anche noi che stiamo a L’Aquila. L’albergo si muove visibilmente, la prima cosa che penso è “sono al 4 piano accidenti, dove sarà meglio sotto il letto o il tavolino?”. E così continuano più forti o più piccole che da una parte non sai se sia ormai la tua immaginazione o la tua ansia, dall’altra ti convinci che la terra altro non è che una grossa pentola a pressione.
Il terremoto del 24 agosto in ogni caso ha cambiato tutto in questa area tra Amatrice e Pescara del Tronto. Per 140 secondi la terra ha tremato con la violenza di 6.2 di magnitudo della scala Richter con conseguenze sulle città più colpite equivalenti ad un bombardamento. Amatrice è la città da cui prende il nome la pasta all’amatriciana, ma è anche la città delle seconde case dei romani e un borgo storico con delle chicche architettoniche degne di nota. Ed in questa città si è passati dai preparativi per la sagra delle sagre, appunto dell’Amatriciana, alla ricerca dei dispersi, al riconoscimento delle salme.
“Là c’era una chiesa bellissima”. Mentre facevamo le prove per la diretta satellitare per il network per il quale sto lavorando si avvicina una signora con un cane. Noi abbiamo scelto il posto con il background delle macerie, lei mi racconta cosa erano. “Vedi là? Quella era la Basilica di San Francesco – continua – e accanto c’è quella parte che ha retto abbastanza che erano le prigioni, perché sa, Amatrice, nei tempi antichi era un centro importante, avevano appena fatto la ristrutturazione per farlo diventare un ostello. Non lo avevano neanche inaugurato”. La signora abita in una frazione vicina “Noi non abbiamo avuto danni, è un paesino di tutte case nuove, case di vacanza principalmente. Certo ora sono andati tutti via, sono rimasta praticamente sola. Le mie figlie stanno cercando di convincermi di andare da loro a Viterbo, ma io voglio restare”. Si ferma un attimo e sospirando indica un altro cumulo di sassi. “Lì c’era la porta di Amatrice – dice – un arco medievale stupendo. Era il simbolo della città”.
“Amatrice non esiste più” ha detto il sindaco Sergio Pirozzi la mattina del 24 agosto. Con il centro storico praticamente crollato interamente la priorità è stata quella del salvataggio dei possibili superstiti. L’ultima persona salvata è la bambina, Giorgia, 10 anni salvata 17 ore dopo la scossa delle 3 e 36, dopo continuano a lavorare i cani dell’UCIS le unità cinofile di soccorso dei volontari o i cani di soccorso delle forze dell’ordine, ma non abbaiano più, iniziano a scavare in silenzio che vuol dire che la persona che stanno indicando non è più viva.
Vengono da tutta Italia i volontari delle unità cinofile coordinati dai Vigili del Fuoco, si accampano nelle tende per i soccorritori o nei giardini di alcune villette appena fuori la zona più colpita. “Con questo caldo e con la polvere i cani possono lavorare al massimo mezz’ora a turno – spiega Arturo uno dei coordinatori dell’Unità veneta – sono addestrati a trovare persone vive, ma anche chi è deceduto da poco poiché per un certo periodo la pelle continua a emanare cellule del dna che sono quelle a cui il cane è addestrato a reagire. Quello che cambia è che quando si trova una persona morta l’animale non abbaia”. La prima notte è stata la più pesante per i soccorritori, tra il 24 e il 25 agosto sono state recuperate decine di vittime di cui, dicono a mezza bocca alcuni dei soccorritori, tanti bambini. Sì perché era l’ultima settimana di agosto, quella in cui i genitori tornano a lavorare e lasciano i figli con i nonni in vacanza.
Ad oggi si sa che sono rimaste sepolte ad Amatrice 229 persone, almeno di quelle riconosciute. “La mia casa è collassata, non c’è più. Era la casa di famiglia io ero a Roma. Sto cercando mia sorella e mio cognato, non sono tra quelli riconosciuti non sono tra quelli non riconosciuti – dice una donna poco lontano dall’obitorio improvvisato poco sopra il campo sportivo – Forse non li trovano perché sono in un ospedale e non hanno ripreso conoscenza”. “Certo è possibile – risponde un’altra donna – è successo ad altri”. Tra di loro le persone parlano, si sfogano, fanno i conti con i loro morti e quelli degli amici perché in un paesino così si conoscevano tutti. Tutti hanno perso qualcuno, se non un parente amici. Un ragazzo di origine albanese che sfoggia la sua collana con l’Aquila simbolo del paese di origine, è al centro operativo, in attesa con i suoi amici di capire cosa può fare. Alle domande sulla sua condizione scrolla le spalle dice “no, noi tutto ok, ho perso solo un cugino”.
Il centro operativo di comando il Coc è un container con più stanze che si trova dietro la scuola Capranica, quella mezza crollata. Lì si coordinano le numerose forze in campo per i soccorsi: protezione civile, esercito, carabinieri, vigili del fuoco, soccorso speleologico, croce rossa, guardia di finanza, polizia. Là vengono smistati i volontari giunti immediatamente da tutta Italia, ma anche dall’estero, come il gruppo di intervento cinese che è in azione per vedere la stabilità delle case crollate, o i un gruppo di soccorritori francesi che si sono messi a lavorare con i vigili del fuoco. Ma primi in assoluto, arrivati nelle prime ore dopo la scossa, sono gli aquilani che si aggirano fra giornalisti e forze dell’ordine scossi ma determinati a portare la loro solidarietà e la loro esperienza di dopo terremoto. E i giorni dopo arrivano pacchi e pacchi di aiuti raccolti immediatamente da singoli e gruppi organizzati. “Abbiamo già riempito la palestra – dice una volontaria della Croce Rossa – ora li dobbiamo tenere qui all’aria aperta, sotto questo gazebo che abbiamo ‘preso in prestito’ alla pizzeria qui accanto. Sta iniziando a diventare un problema, per questi vestiti dobbiamo trovare una soluzione, hanno portato di tutto ma ad esempio mancano calzini e mutande”.
Ma lo spettacolo più forte sono proprio loro, i cittadini di Amatrice e delle altre aree colpite. Una dignità nel dolore, la consapevolezza di dover affrontare le cose pratiche più immediate dai calzini ai certificati di morte. E nonostante questo mantengono l’umanità di essere solidali anche con noi, i giornalisti, gli avvoltoi per eccellenza nelle situazioni di emergenza. Mentre eravamo in cerca di un bagno, in una via secondaria ci hanno offerto l’acqua e quando abbiamo chiesto il bagno ci hanno mandato dal falegname. In un’atmosfera surreale il falegname non esita, dice al suo aiutante di dare una pulita al bagnetto e ci porta al garage. Apre la serranda e ci troviamo davanti ad una 15ina di bare. Lo guardiamo con aria interrogativa e lui ci riguarda e dice “Sì le ho ordinate ora e per domani me ne dovrebbero arrivare altrettante”.