Camminare attraverso duecento anni di storia nel cimitero di Antakalnis, a Vilnius.
Testo e foto di Fabio Belafatti | Testo integrale dell’articolo comparso sul numero 7 di Erodoto108 (leggi qua)
Immaginate di prendere un libro di storia degli ultimi duecento anni, uno di quelli densi di nomi e date. Apritelo con cura, fate scricchiolare la costa del volume, separate le pagine le une dalle altre. Iniziate a strapparle una per una, alcune con attenzione, magari addirittura con religioso rispetto, altre in modo più frettoloso. Alcune magari strappatele proprio, altre spiegazzatele un po’. Mescolatele, confondete il senso cronologico, gettate via la copertina. Quando vi resterà solo una pila di fogli con brandelli di storia scritti sopra, scollegati l’uno dall’altro, incomprensibili senza un riferimento temporale, lanciateli in aria e ammirate il risultato alla caduta: una splendida, sgualcita antologia sparpagliata. Questo è il cimitero di Antakalnis.
Antakalnis è uno dei quartieri storici di Vilnius, capitale della Lituania. È in questo brandello di terra incastrato tra il fiume Neris, i palazzoni sovietici della periferia e le colline dove un tempo sorgevano castelli di legno che la città ha narrato se stessa per secoli, prendendo inconsciamente appunti della propria storia con l’inchiostro delle lapidi e la carta delle colline coperte di pini. Il cimitero che si snoda all’ombra di una foresta non del tutto addomesticata è un monumento spontaneo alla storia della Lituania degli ultimi due secoli. Camminare per Antakalnis è come calpestare le pagine di quel libro di storia dalle pagine strappate. Spesso vi capiterà che i capitoli siano rimasti pressapoco vicini, ma magari in mezzo ci troverete una pagina proveniente da un secolo successivo. In altri punti, l’ordine manca del tutto, e le pagine sono solo un guazzabuglio di riferimenti a epoche diverse.
Visitare il cimitero per la prima volta possedendo gli strumenti per capirne i codici è un’esperienza surreale. È come capitare in un museo di cui non si conosceva l’esistenza e scoprire angoli nuovi, sorprendendosi ad ogni sala per la presenza di qualche capolavoro che non immaginavate si trovasse lì. Sono stato varie volte al cimitero di Antakalnis, tanto che nella mia personale geografia della città, identifico il quartiere con questo cimitero splendidamente vetusto. Ogni volta, vi scopro qualcosa di inaspettato in quella che è la capitale di uno degli angoli più ricchi di storia dell’intera Europa. Nel nostro immaginario di europei occidentali, la Storia non vive ad Est. L’Europa Orientale è una massa indistinta di eventi ininfluenti, lontani dalle grandi guerre che hanno frantumato l’Europa per millenni, niente a che vedere con i giochi delle grandi potenze. Al massimo, qui è solo “Russia”, parco giochi degli Zar, e prima di quello, il vuoto. Quanto ci sbagliamo. Antakalnis ne è la prova stampata sulla terra, tra i pini e le rocce. Entrate dalla cancellata senza pretese e vi troverete in un territorio a se stante dove la voce della Storia è pietrificata in migliaia di lapidi, centinaia di monumenti che commemorano fatti di cui non sappiamo quasi nulla ed eroi a noi sconosciuti che hanno cambiato la vita di milioni di persone.
I primi ad accogliervi saranno gli abitanti della Vilnius del primo ottocento. Croci cattoliche, croci ortodosse, una di fianco all’altra. Una schacchiera di religioni. Cippi e lapidi che sembrano usciti da un’illustrazione da romanzo gotico: blocchi di pietra grigia ormai spezzati, coperti di muschio, foglie e aghi di pino, a volte avviluppati tra le radici di alberi moribondi. Rami di ferro arrugginito, sbriciolato, che un tempo disegnavano croci che ora pendono storte e rovinate. Ovunque, tombe sprofondate nel terreno troppo morbido. Nomi e cognomi polacchi, russi, bielorussi, qualche cognome ucraino. Il latino per i polacchi e per una manciata di mercanti tedeschi, il cirillico sotto alle croci ortodosse ma anche sotto a quelle cattoliche dei piccoli riti orientali ancora legati al papato. Sono i nomi degli abitanti di una Vilnius che non c’è più, che si chiamava Wilno o Vil’na o Wilna o Vil’nja, scritto nelle mille lingue di questa parte di mondo; i testimoni di un’epoca in cui la città era diventata multietnica e dell’origine lituana di Vilnius non restava che una traccia nell’etimologia del nome della città. Un periodo in cui covava la rabbia di dieci nazioni schiacciate dagli Zar e umiliate dalle troppe rivolte fallite. Una città dove le grandi chiese ortodosse si alzavano a segnare chi fossero i nuovi padroni. I magnati polacco-lituani che avevano reso Vilnius una capitale europea assistevano alla decadenza mentre i nuovi padroni da San Pietroburgo colonizzavano quella che era diventata un mero capoluogo di provincia.
I fantasmi di questa Vilnius scomparsa si mescolano a quelli della Vilnius di oggi. Girate dietro alla cappella privata di una qualche famiglia aristocratica polacca e, incuneata tra il sepolcro di un prete ortodosso e quello di una nobildonna russa, vi troverete davanti alla tomba di Justinas Marcinkevičius, uno dei cantori della Lituania moderna. Il terreno è lo stesso, ma stiamo già camminando sul ventunesimo secolo. Il fregio della tomba del poeta, morto tre anni fa, è una dichiarazione di intenti: simboli etnici tradizionali, emblemi folkloristici, e in centro alla splendida croce di ferro battuto, lo stemma tradizionale della Lituania, il cavaliere che scaccia l’invasore. Un grido silenzioso di orgoglio nazionale.
Dall’altra parte del viottolo, il cimitero si irreggimenta per un lungo tratto in rigide geometrie militari: a due passi dalla tomba del poeta nazionale, file e file di croci tutte uguali, ciascuna ornata con la fascia rossa e bianca dell’amata-odiata Polonia. Solo due passi, eppure siamo ricaduti all’inizio del secolo scorso. Sono i soldati polacchi morti combattendo i bolscevichi nella guerra del 1919-1920. Vilnius era all’epoca nuovamente lituana, instabile capitale di una neonata repubblica dall’incerto futuro, ma non lo sarebbe stata per molto. I commilitoni di quegli stessi soldati sepolti ad Antakalnis ne prenderanno il controllo nel ’20 per consegnarla in mano polacca. Ed è qui ad Antakalnis che l’aquila di Polonia orna i cippi decorativi a pochi passi dal cavaliere sulla tomba di Marcinkevičius. Solo qui lungo le colline di Antakalnis possono convivere due visioni così opposte della città, un tempo alleate, poi acerrime nemiche.
Risalite la china lungo la quale riposano i Tomasz, i Łukasz e gli Stanisław morti a centinaia per la Polonia, e vi troverete nel mezzo di un monumento ornato da nomi del tutto diversi: Algymantas, Vytautas, Apolinaras, Ignas, e tutti gli altri che diedero la vita per l’indipendenza lituana. Ancora una volta, ad Antakalnis, due passi significano un cambio di epoca. È il 1991, la Lituania lotta per liberarsi da un nuovo giogo, questa volta sovietico, e deve versare sangue per riuscirci. Il prezzo di questo sacrificio è onorato ad Antakalnis, dove giacciono coloro che diedero la vita in quel frangente. L’immancabile Pietà che orna il monumento sembra abbracciare coloro che oggi sono onorati come eroi. La nuova nazione celebra i propri riti su questo altare, la nuova Vilnius vi si riconosce e ringrazia per la riconquistata libertà. Più in alto, lungo la collina, diciannove posti sono riservati ai presidenti della nuova lituania. Uno è già occupato dal primo presidente, il controverso Brazauskas. Riposa con gli eroi del ’91, ma fino a pochi anni prima era dalla parte dei sovietici. C’è chi dice che si riciclò come patriota al momento giusto, c’è chi dice che fosse sincero nella sua conversione. Conta poco ormai: Antakalnis non pone queste domande, lascia spazio a tutti, ha un posto per ogni pagina di storia; e quella di Brazauskas e degli eroi del ’91 è una di quelle che vengono trattate con il massimo rispetto.
Erano rimasti dimenticati per secoli. Sepolti nelle trincee che loro stessi avevano scavato attorno alla vecchia Vilnius, nell’ultima ritirata. I soldati della Grande Armata di Napoleone entrarono trionfalmente in Vilnius il 28 giugno 1812, cinquecentomila uomini di venti nazioni diverse lanciati verso Mosca; sei mesi dopo, a Vilnius ne tornarono un decimo, stremati, feriti, in fuga durante la grande ritirata di Russia. Migliaia di loro riposano ad Antakalnis, sepolti in una fossa comune con una lapide in francese e in lituano, ultimo omaggio a coloro che la Storia ricorda come arroganti conquistatori, ma che i polacchi e i lituani accolsero come liberatori dal giogo zarista, e coi quali condivisero la fine. Anche le loro ossa riposano qui, in un angolo a due passi dal monumento ai caduti per l’Indipendenza, un pezzetto di terra talmente sereno e pacifico che risulta impossibile immaginare che vi giacciano i resti di uno degli eserciti più formidabili mai esistiti.
Ancora due passi dalla fossa dei soldati francesi, e Antakalnis vi offrirà la vista di una collinetta coperta di tombe di metà ottocento. Gente comune, medici, insegnanti, un altro pezzo della Vilnius nuovamente dominata dagli Zar dopo la disfatta delle speranze napoleoniche. Ancora lapidi in cirillico alternate a lapidi in latino. Dieci passi ancora, un altro vertiginoso salto cronologico: le collinette e gli alberi si aprono a mostrare un anfiteatro naturale disegnato da pendii addomesticati. È la sezione sovietica del cimitero. I figli e i nipoti di coloro che occuparono la Lituania nel ’40 si prendono religiosamente cura delle maestose scalinate fiancheggiate dai cipressi e dalle liste dei nomi dei morti dell’Armata Rossa. Migliaia di nomi di giovani da tutta l’Unione Sovietica, azeri, georgiani, armeni, turkmeni, kazaki, russi, ukraini, tutti accomunati dall’essere caduti attorno a Vilnius durante la “Grande Guerra Patriottica”, il modo in cui i russi chiamano la Seconda Guerra Mondiale. Le date dell’eroico sforzo sono scolpite a caratteri cubitali all’ingresso del memoriale: 1941-1945. E il ’39? E il ’40? Già allora si combatteva, ma non qui: i sovietici si spartivano l’Europa Orientale coi nazisti, e i lituani perdevano la loro sudata indipendenza. Pochi tra loro vengono a porgere omaggio ai sovietici che molti qui vedono come oppressori. Sono soprattutto i russi rimasti qui dopo la riconquista dell’indipendenza lituana a lasciare corone di fiori ai piedi delle enormi statue di soldati che coronano il complesso. Antakalnis però non giudica le intenzioni o le interpretazioni, che altrove a Vilnius e a Mosca scaldano ancora gli animi in diatribe lunghe decenni.
E in pace riposano anche i notabili del Partito Comunista Lituano, sepolti in tombe tutte uguali, spoglie di riferimenti religiosi, allineate nei muri a poca distanza dal memoriale dell’Armata Rossa. Un tempo eroi proletari, oggi la loro memoria è in disgrazia, la nuova Vilnius non sa che farsene, ma Antakalnis lascia spazio anche a loro. I lineamente seri e gli occhiali da burocrate, i loro ritratti scolpiti in un grigiore sovietico suscitano smorfie di sdegno nei loro nemici, e silenziosa nostalgia tra i vecchi sostenitori che ogni tanto portano fiori. Ed è forse in segno di sfida verso di loro che due letterati nazionalisti contemporanei, sepolti a pochi metri dai vecchi avversati, scelsero di ornare le proprie tombe con simboli patriottici, alti tronchi intagliati alla maniera delle campagne, decorati con stemmi nazionali e una rappresentazione di un Rūpintojėlis, il Cristo addolorato che piange i dolori della nazione lituana. Una scelta chiara, un segno di possesso del territorio in un cimitero che è esso stesso terra contestata, tomba di opposti ideali. Ma anche un’affermazione di esistenza di una cultura, quella lituana, da sempre radicata nelle campagne, e che quando segna la propria presenza nelle città suona sempre un po’ fuori posto, con il suo legno intagliato, le sue tradizioni contadine, i motivi folkloristici di origine pagana, e proprio per questo vuole gridare che anche lei appartiene a Vilnius, e ad Antakalnis.
La collina che si innalza nel cuore del cimitero è il luogo dei poeti e degli scrittori, degli scienziati, degli attori, dei politici. Una Santa Croce lituana all’aperto, dedicata ai grandi della nuova Vilnius, quella degli ultimi decenni del secolo scorso e dei primi anni di questo nuovo millennio. Sono nomi lituani, quasi tutti, a simboleggiare gli stravolgimenti demografici della città. Non si guarda all’ideologia, qui: per poter riposare sulla collina più alta, ciò che conta è l’aver dato qualcosa alla Lituania ed essere riconosciuti come grandi. Le tombe si susseguono in una fantasia sepolcrale di forme astruse, riferimenti alle professioni dei defunti, pentagrammi, maschere teatrali, bacchette da direttore d’orchestra, libri, violini, alberi, lapidi che ricordano litografie, lapidi che ricordano edifici post-moderni, tombe a forma di Lituania, tombe senza forma, croci, uccelli, volti, statue e via e via in un pacifico kaleidoscopio di marmo, legno e granito. C’è il compositore che creò una canzone patriottica di fianco alla “ballerina e artista del popolo” che si esibiva per la nomenklatura comunista, lo scrittore sovietico e l’ambasciatore figlio di esiliati che potè tornare in Lituania solo con l’indipendenza. Forse in vita molti di costoro si odiavano a morte, ora riposano fianco a fianco.
Scendete dalla collina lungo il viottolo seminascosto che si snoda dietro a questo sacrario della cultura lituana e vi troverete catapultati indietro di cento anni, in un’area appartata del cimitero, raramente visitata. Sui due lati del viottolo, due cimiteri-dentro-al-cimitero. Uno spazio è dedicato “agli eroi tedeschi”: qui riposano i soldati che nel 1915, in piena della Prima Guerra Mondiale, combatterono per l’Impero Tedesco in quella che doveva essere “la guerra per porre fine a tutte le guerre”. Vite sprecate per un’idea che si rivelerà illusione e per la gloria di un paese che tre anni dopo cesserà di esistere. Sull’altro lato del viottolo, una serie di lapidi sono ornate dalla mezzaluna islamica: sono i soldati musulmani morti nello stesso anno, molti di loro combattendo per l’Impero Russo contro quegli stessi tedeschi sepolti sull’altro lato del sentiero. Altro sangue sprecato per un’altro Impero che smetterà di esistere due anni dopo, travolto dalla Rivoluzione d’Ottobre. Poco lontano, un monumento ricorda tutti i morti nella Grande Guerra, di ambo le parti, e di fronte a quello, due statue commemorano dei combattenti sovietici: i soldati del Vecchio Mondo e gli alfieri del Nuovo, già sepolto. Nemici un tempo, riposano per ironia della storia nello stesso fazzoletto di terra ad Antakalnis. Così come sono onorati nello stesso luogo il sergente austriaco Anton Schmid, Giusto tra le Nazioni che salvò decine di ebrei nella Seconda Guerra Mondiale e fu per questo fucilato dai suoi commilitoni, e il generale Noreika, patriota lituano che molti accusano di aver partecipato all’Olocausto. È ricordato insieme ad altri eroi meno controversi della resistenza antisovietica lituana, il cui memoriale è appena dietro al cancello d’ingresso, sempre ornato da piccoli mazzi di fiori.
Camminare per questo cimitero è un atto di amore nei confronti di questa città. È un riconoscimento della sua diversità, della sua splendida, terribile storia, di tutte le sue contraddizioni e ipocrisie, glorie, fallimenti e trionfi. È il solo luogo dove i nemici di un tempo possono essere onorati insieme, rispettati nel loro riposo: “poeti del popolo” e “poeti della nazione”, soldati di Napoleone e aristocratici zaristi, patrioti polacchi, patrioti lituani, militari tedeschi e i loro avversari russi, militari stalinisti e i loro nemici partigiani, presidenti post-comunisti e nazionalisti irriducibili, primi segretari del Partito e discendenti di deportati in Siberia. In questo paese dove ogni pagina di storia è un campo di battaglia su cui tutti vogliono apportare correzioni, Antakalnis è l’unico luogo dove la Storia viene lasciata in pace. Magari è sparpagliata, trascurata, a tratti caotica; magari è confusa, poco chiara, contraddittoria; a volte ti pone davanti a protagonisti di cui non sospettavi neppure l’esistenza, o a figure controverse che suscitano feroci dibattiti, amore appassionato o odio profondo. A volte è una storia difficile da accettare. Ma riposa, almeno qui, in pace.