In cerca delle nuove frontiere del mercato dell’arte. Si è appena conclusa la decima edizione di Art Dubai, che è passata dall’ospitare 40 gallerie da tutto il mondo alle 90 di questa edizione, da 8mila visitatori nel 2007 ai 25mila del 2015.
Due le presenze italiane: la Galleria Continua di San Gimignano, e la Galleria Marie-Laure Fleisch di Roma. E due le palestinesi, per la prima volta, la Gallery One di Ramallah di Samar Martha e la Zawyeh Gallery di Ziad Anani.
La Gallery One ha portato tre autori, tutti e tre ben noti e apprezzati all’estero: Amer Shomali, Bashar Alhroub, Khaled Jarrar. Amer Shomali, classe 1981, è un’artista multdisciplinare e probabilmente l’ultima volta che ne avete sentito parlare era in occasione della proiezione di “The wanted 18” che ha codiretto con il canadese Paul Cowan con cui aveva vinto l’Abu Dhabi Film Festival del 2014 come miglior documentario, e poi al Carthage Film Festival. In esposizione la sua riproduzione pop di un ritratto celebre di Laila Khaled, oggi membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, con un AK47 in braccio. La riproduzione di Shomali è realizzata con rossetti di 14 colori diversi. Khaled Jarrar, classe 1976, di Jenin, è sicuramente conosciuto a livello internazionale per lo studio sulla funzione dell’arte come forma di contestazione contemporanea. Una delle sue ultime performance è stata la distribuzione di timbri ufficiali della Palestina da mettere sui passaporti dei turisti che arrivavano nel suo paese. Uno degli ultimi progetti nel 2014 in Finlandia ha coinvolto decine di volontari per una marcia militare, Dis/Obey voleva indagare il potere militare, la disobbedienza e la responsabilità personale nelle zone di conflitto.
Nel 2014 a Pittsburgh la performance, The land of Diamonds, preparata da Bashar Alhroub è stata ritirata per motivi politici e lo spettacolo annullato. Nowhere è un progetto che ha indagato la condizione dei bambini rifugiati. Del 2014 invece il suo lavoro video Gateway to Heaven nuova indagine sulla condizione dei rifugiati, in modo particolare sullo status di chi, dopo più di cinquanta anni, ancora non ha uno status di rifugiato ufficiale e vive in un limbo di un campo come quello giordano di Al-Talibiyyah. Il campo è uno dei sei di emergenza istituiti nel 1967 ed andava ad accogliere 5000 persone fuggite sia dalla West Bank che da Gaza e che oggi accoglie il doppio della popolazione. Tre artisti politicamente impegnati come Jawad Al Malhi, classe ’69, nato e cresciuto a Shuafat Refugee Camp che per molto tempo ha dedicato la sua arte ad indagare gli spazi di quotidiana resistenza di chi vive chiuso in una vita gestita da altrove.
Mentre scriviamo non sono ancora usciti i numeri di questa nuova edizione ma Dubai si sta affermando come hub internazionale per lanciare le nuove leve dell’arte.