Testo e foto di Niccolò Manassero.
Niccolò Manassero è un archeologo ed un ricercatore.Vincitore di una prestigiosa borsa assegnata dall’Università di Harvard per continuare i suoi studi nello sito archeologico di Nisa, l’antica città dell’impero dei Parti, nel territorio dell’odierno Turkmenistan. A pochi chilometri dallo scavo si trova Ashgabat, la capitale turkmena. Niccolò, che in Turkeminsatn ha trascorso diversi anni per studio e lavoro, ci descrive una città in preda ad un convulso modernismo, complice la vivace politica estera nell’esportazione di idrocarburi. L’Ashkabat “moderna”, sovietica e di origine nomadica convivono fra i palazzoni semi-vuoti costruiti in fretta e furia del nuovo leader politico Gurbanguly Berdimuhamedow. Al di là dei cantieri edili in continuo movimento e dai muri color cemento “l’anima del paese”, il vero Turkmenistan, “sopravvive nelle campagne” e diventa un baluardo della memoria e la tradizione collettiva.
È difficile riconoscere Ashgabat dalla finestra dell’anonima stanza d’albergo in cui mi trovo. All’orizzonte montagne brulle fanno da sfondo a una schiera di palazzoni bianchi, parallelepipedi che sembrano posati sulla sabbia come enormi pezzi di Lego. Larghe strisce d’asfalto frazionano lo spazio vuoto che separa questo sobborgo della capitale dalla catena del Kopet Dagh, oltre la quale sta l’Iran. Eppure l’impressione è quella di essere a Las Vegas: i giardini curati, le fontane, i mille lampioni che costeggiano le vere e proprie “highways” che si insinuano tra i tozzi grattacieli, l’architettura sfarzosa di questo e di tanti altri alberghi, la clientela di pingui businessmen in bermuda con le loro accompagnatrici locali, tutto ricorda la capitale del Nevada più che l’ex-villaggione sovietico che ho conosciuto undici anni fa, quando capitai qui per la prima volta.
Ho visto Ashgabat cambiare volto e anima, tanto alla volta: due mesi all’anno di permanenza sono abbastanza pochi da consentirti di osservare, volta dopo volta, gli abissi che si scavano in una città, in una società, in continua e convulsa crescita. La costruzione di strade e grattacieli foderati di accecante marmo bianco è andata di pari passo con la distruzione dei quartieri russi di cemento e antenne. Lo spazio asettico e geometrico dei nuovi giardini, dove i cipressi smunti vengono perennemente irrigati e i viali lastricati sono spazzati da un esercito di donne mascherate e armate di sproporzionate scope di saggina, ha sostituito i giardini un po’ disordinati e selvaggi dell’epoca sovietica. Sopravvive, poco fuori dal centro, l’orto botanico, mentre gli altri parchi d’impianto russo vengono progressivamente assediati dalle transenne dei nuovi cantieri edilizi, che stanno cingendo nel loro abbraccio l’intera superficie della capitale, per dilagare ancora verso il deserto in ogni direzione, e conquistare le prime sabbie del Karakum alle esigenze edilizie di un Paese in evidente crescita economica.
Quella turkmena è una popolazione fiera, orgogliosa delle proprie radici culturali turche, sicura del proprio futuro garantito da uno dei più grandi giacimenti di gas del pianeta, che simbolicamente brucia senza sosta da cinquant’anni nel cuore del deserto, a Dervaza. Fino a due anni fa la gente rimpiangeva Saparmurat Niyazov, il Turkmenbashi, capo e padre dei Turkmeni, e deprecava l’esagerato aumento del costo del carburante (da 5 a 40 centesimi di euro al litro) decretato dal nuovo presidente, Gurbanguly Berdimuhamedow, ex-dentista del Turkmenbashi assurto al potere in seguito alla sua morte inaspettata. Ora tutti lo elogiano, indicano allo straniero il volto ostentatamente moderno della città, e chiedono retoricamente cosa ne pensi: “khoroshij, da?” (“bello, vero?”). Veramente no, preferivo l’Ashgabat delle case con veranda in legno cesellato, dei giardini scuri di gelsi centenari, delle chajkhana (“sale da tè”) che sorgevano alla loro ombra, e del vecchio e polveroso bazar fuori porta, il Tolkuchka, sostituito adesso da una gigantesca colata di cemento in mezzo al deserto, geometricamente disposta a formare un folle spazio commerciale in cui si trova ormai solo merce cinese, non più artigianato locale. Ma faccio finta di annuire, e osservo, ammirato davvero, i mille cantieri che stanno cambiando il volto di questa città: operai che lavorano su 3 turni giornalieri, senza altra sosta che le feste nazionali, tra cui la più sentita è il compleanno del presidente.
La sera, però, le rare luci accese nei nuovi palazzi rivelano un volto diverso della crescita: gli appartamenti sono grandi e costosi, ben pochi possono permetterseli, e non tutti i Turkmeni, nomadi da millenni, si adattano a viverci. Così molte famiglie, quando sono stati abbattuti i condominii sovietici in cui vivevano, sono tornate ai loro luoghi d’origine, hanno trovato accoglienza dai parenti nei villaggi nativi, e lì si sono rifatte una vita, in nuove case dalla dimensione umana, a un piano, con poche stanze, il bagno rigorosamente all’esterno, e un piccolo terreno per avere di che mangiare.
Così Ashgabat cresce in dimensioni, ma non in popolazione: è il simulacro un po’ vuoto del Turkmenistan moderno, fiero di essere entrato di prepotenza nel suo “secolo d’oro”. Le fanno eco le nuove costruzioni di Awaza, località con pretese balneari sulla desolata costa orientale del Mar Caspio: una selva di alberghi di lusso e casinò che fanno il verso ad Abu Dhabi e intendono richiamare capitale straniero. Ma i giovani che ne hanno la possibilità emigrano in Turchia, negli Stati Uniti, e i palazzi bianchi di Ashgabat rimangono vuoti, e già mostrano i segni di usura dovuta al clima feroce e alla carenza cronica di manutenzione.
Fortunatamente l’anima del Paese sopravvive nelle campagne, in paesi isolati di montagna come Nokhur, dove si possono ancora trovare case in mattoni crudi e legno, muri in pietre a secco, stradine di fango che conducono a suggestivi cimiteri con cippi protetti da corna di muflone. Khoroshij, da!
Testo e foto di Niccolò Manassero | Presentazione a cura di Marco Turini