L’antica città, al centro della fertile valle della Bekaa, nel Libano centrale, è una immensa sorpresa. Non ne puoi immaginare la grandiosità. Scompaiono i confini quando si cammina fra le sue straordinarie rovine: si può solo ammirare un’orizzonte senza fine e le profonde stratificazioni verticali della storia
Cartolina di Lorenza Pampaloni
Baalbek o della vastità. Una vastità orizzontale e luminosa – non per niente fu chiamata in epoca ellenistica Heliopolis, Citta del sole – che il cattivo obiettivo del mio cellulare non riesce a rendere, anche se provo ripetutamente a inquadrarla per riviverla poi nella galleria di foto. Ma anche una vastità verticale con le tante stratificazioni di questa impressionante area archeologica che la nostra guida libanese elenca via via e che ti risucchiano in un vortice temporale. Fenici greci romani bizantini mammalucchi, che si sono avvicendati, abbattendo ma sempre riutilizzando pietre graniti travertini colonne (quelle del tempio di Giove arrivavano a 20 metri con un diametro di più di 2 metri) incisioni e altri materiali dei predecessori, in una sorta di ruota del tempo che a un certo punto si è fermata, sedimentando rovine fascinose e inaspettate. È rimasto invece in piedi il tempio di Bacco, imponente e incombente, ma senza tetto e con un po’ di fregi con tralci e grappoli che si sono staccati dall’alto e sono caduti a terra.
Arrivata in Libano per caso, sull’onda di una suggestione (è stato il ricordo di una frase di Gad Lerner, “il mio dolce libano”, nel suo libro Scintille, a farmi partire), mi ritrovo spiazzata, impreparata, tra queste rovine imponenti. E vorrei rimanermene seduta qui per un po’ lasciandomi avvolgere da questa sorta di vertigine e dall’humus di questa orientalità multipla che mi ha sempre attratto. In lontananza si percepisce la valle della Bekaa, la fertile valle-granaio, con i suoi campi seminati e vigneti bananeti e altri frutteti, diosperi e melograni, terreno di coltura del “libanese” degli anni ruggenti. In mezzo, sorta di incrostazioni grigie, affiorano i container degli “insediamenti” dei tanti profughi siriani (quelli dei palestinesi vengono invece chiamati “campi”). Ed è un ritorno alla realtà.