testo di Antonella Gatti | fotografie di Greta De Lazzaris.
Prima Classificato Sez. A concorso Fogli di Viaggio
Sezione A – Ogni posto è una miniera
Mi sono trasformata in Bibendum, l’omino Michelin, aspetto il tram con la mano guantata che tiene stretto il sacchetto dei viveri. I rari fiocchi di neve che cadono non giustificano il mio abbigliamento, la gente mi guarda e penserà “che esagerata!”, sono solo previdente…
Parte così, alle 10.00 di una domenica mattina di febbraio, il mio viaggio verso Chişnău con il pullman, giusto per vedere anche questa tratta: pochi mesi prima avevo fatto il tragitto inverso nel tiepido clima autunnale dell’Est.
Al parcheggio di Cascina Gobba c’è fermento: la domenica è deputata al gran movimento di pacchi, scatole valige, gomme e tutto quanto deve raggiungere la Moldavia al seguito delle signore badanti che tornano verso casa. Da sempre incuriosita dalla gente che si muove sono, quasi per caso, “incappata” in questa categoria così ben rappresentata ai giorni nostri e le ho un poco studiate da vicino.
Vladimir, il mio “capo scalo”, mi accoglie con un sorriso e mi affida ad un suo assistente per le operazioni di check in: il peso del bagaglio, la scelta del posto a bordo. Riscendo, prevedendo le lunghe ore che mi vedranno seduta lì dentro e vago con lo sguardo a caccia del posto utile per espletare le funzioni fisiologiche di rito, sapendo che la prossima occasione l’avrò solo tra qualche ora. L’indicazione la intuisco osservando un uomo che finisce di scolare la bottiglia di birra e si dirige a passo spedito verso una fila di bagni chimici.
Osservo i compagni del mio viaggio: ci sono poche donne, chiacchierano tra loro, c’è un discreto numero di uomini e me ne chiedo il motivo. L’atmosfera è serena, nessuno pare preoccupato delle condizioni meteo dell’Europa dell’est, grandi strette di mano grandi pacche sulle spalle.
Una signora arriva trafelata, il marito le porta una serie di borse e l’aiuta a posizionarsi, lo steward è indaffarato a caricare poltrone da ufficio e non pare considerare la passeggera con la stessa attenzione che aveva dedicato a me…
Nella parte posteriore del mezzo che pare un po’ “tacchino” per una sorta di protuberanza sulla coda, trovano posto cassette degli attrezzi, scale, gomme, tutto funzionale al nostro viaggio. Il borbottio del motore acceso che si scalda, mi delinea ancor meglio la similitudine animale.
Il carico è terminato, si chiudono i portelloni laterali e appare l’angelo grigio sulla cupola dell’ospedale San Raffaele: forse vuole augurare buon viaggio anche lui, come fanno le persone che salutano con la mano.
A Palazzolo usciamo dall’autostrada nella mia convinzione che verranno incrementate le quote rosa, invece si tratta di un carico di panettoni. Già, l’altro giorno era San Biagio: se ne acquistano due al prezzo di uno!
La signora seduta davanti a me si è tolta la cuffia di lana e comincia a spazzolarsi i capelli con vezzosa civetteria. Riposta la spazzola esibisce un cuscino di tutto rispetto sia per le dimensioni che per i ricami, non pare solo un complemento di viaggio, ma l’esibizione di una perizia manuale alquanto elegante.
L’asfalto è nero sotto di noi, asciutto, vorrei rimanesse così per i prossimi duemila chilometri, ma so bene che non durerà. Gli autogrill sono pieni di tir parcheggiati in attesa che scada il divieto domenicale di circolazione, gli autisti fanno capannello e lo sfondo dei borghi e città vicini pare non attrarli, prigionieri come sono dell’autostrada.
Veniamo superati da svariati furgoni e pulmini che pare volino tanto corrono, per lo più targati Ucraina o Romania. L’autista del mio tacchino, nel caso mi fossi dimenticata di come si guida dalle sue parti, non ha alcuna intenzione di lasciarsi seminare.
Parte la serie dei telefilm russi che ci terrà compagnia per tutto il viaggio episodio dopo episodio: il detective, la figlia adolescente, la criminalità organizzata, la violenza, le sigarette, tutto identico a quella di alcuni mesi fa, per fortuna la serie non è la stessa. Sposto un poco il cuscino di fronte che mi limita la visuale e faccio la conoscenza di Tatiana, complimentandomi per i ricami, che vive a Casale Monferrato e torna a Străşeni, una trentina di chilometri da Chişinău. Con dovizia geografica dimostro la conoscenza del territorio essendoci già passata nell’altro viaggio, suscitando lo stupore di Tatiana e della compagna accanto.
A pochi chilometri da Venezia una sosta, che immagino solo “accennata” visto il limitato tempo a disposizione, ma che capirò presto essere la norma, le pause lunghe non sono contemplate. Data l’esperienza non proprio positiva avuta nel viaggio di ottobre, ho deciso di utilizzare l’altra compagnia che effettua il servizio sulla stessa tratta. Così mi sono affidata a Vladimir e al suo equipaggio, che ancora non ho ben capito se sono quattro o cinque uomini e che pare debbano stabilire il record sul percorso ma, se non altro, montano pneumatici decenti.
E’ ricominciata la giostra dei cinquanta centesimi, mentre li cerco – giuro che li ho presi – Elèna me li presta. Elèna ha una cinquantina d’anni e quattro figli, di cui uno in Italia, a La Spezia. «Era tuo marito quello che ti portava le borse, prima?» «Si! L’hai visto?» Mi chiede orgogliosa. Così mi aggiorna sui movimenti famigliari: il ritorno a Chişinău dagli altri tre figli e relativi nipotini. Le vacanze dureranno due mesi, la famiglia presso cui lavora l’ha momentaneamente sostituita con una ragazza ucraina. Tra quindici giorni anche Valentin, il marito, li raggiungerà. Ora sta finendo un lavoro. Fa il muratore con un cugino che li ha aiutati anche a trovare la casa in cui vivono da due anni. Prima è arrivata Elèna, cinque anni fa, poi è arrivato il marito e a seguire il figlio più piccolo oggi venticinquenne. Dalle parole della donna intuisco che l’esperienza migratoria avrà un termine, come nel caso delle signore ucraine incontrate nella chiesa del Sacro Volto a Milano. Migrare consente loro di migliorare almeno temporaneamente la condizione economica o dare un’opportunità ai figli che affrontano il percorso con una determinazione diversa: ripartire da capo, altrove.
Ci affrettiamo, il borbottio del tacchino è inquieto, come saliamo si riparte. Passiamo accanto alle merende improvvisate dei “prigionieri”: cassette di legno rovesciate sono l’appoggio per affettare cipolle e salami affumicati. Mangerò un mandarino.
I posti sono quasi tutti occupati, se si considera la prima metà del pullman, perché la seconda è adibita a dormitorio per l’equipaggio e bagagli vari che non sono stati stivati nel pianale sottostante.
Si aprono le borse di plastica e si diffonde odore di prosciutto cotto – in mancanza dei manicaretti moldavi i cui aromi si diffondevano nell’altro viaggio – mentre l’ennesimo episodio poliziesco è finito e parte la serie di “Comedy” uno show comico con tanto d’imitazione del nostro ex presidente del consiglio. Anche Eugene, il silenzioso ragazzo seduto accanto a me, sorride incurante dello sconfinamento continuo nel mio spazio: ha le gambe lunghe…L’avevo notato per la giovane età quando la mamma l’ha messo a sedere e ha cominciato a rifocillarlo. Conosceva il viaggio che questo figlio doveva affrontare dopo essere stato, con ogni probabilità, a trovarla. Il ragazzo parla solo rumeno o russo. Le nostre comunicazioni sono ridotte a sguardi o gesti.
Varchiamo il confine sloveno senza alcuna sosta, la velocità è sempre sostenuta e la manica a vento in testa al viadotto pare l’anima di Paolo sbattuta qua e là. Quella di Francesca allerta i viandanti del lato opposto. Il tacchino si decide a rallentare.
Continua ad intuirsi l’asfalto nero nel buio della notte che è calata, gonfio il mio cuscino da viaggio e recupero la coperta dallo zaino: si riduce l’ingombro tra le mie gambe ed il sedile, anche Eugene pare apprezzare.
Una serie di scossoni mi risvegliano di colpo, guardo fuori e non vedo più il nero dell’asfalto. Una freccia indica Veszprèri, dal nome direi che è Ungheria, Elèna è sveglia e mi conferma che non abbiamo avuto alcuna fermata né al confine né fisiologica. Un sospiro di sollievo: temevo di aver perso l’occasione per sgranchirmi le gambe e fare due passi, in compenso vedo che si sorseggia thè, infatti arriva pronto lo steward, il più giovane dell’equipaggio e mi offre un chai, il servizio è proprio impeccabile.
I viaggiatori sono immersi nella televisione, io guardo fuori e vedo quanto stiamo entrando in questa scatola di latte: nel buio della notte si intuisce solo il bianco della neve, sempre più neve.
Finalmente la tappa fisiologica. Pare di stare in un aeroporto, con tutte le luci e i pavimenti lucidi e profumati. La novità è che spunta un tornello in cui inserire l’euro per accedere all’area più importante. Ho l’occasione di sdebitarmi e invito Elèna, manco fosse un buon caffè! Anche le altre signore ammirano la navicella spaziale in cui siamo finite e commentano che anche gli uomini han dovuto pagare, non solo noi!
Chiedo appunto il perché di una presenza così massiccia di uomini, ce ne saranno almeno una decina con noi. Mi spiegano che molti di loro erano venuti per fare un lavoro saltuario, solitamente impiegati come manovali e ciò spiga l’età media di quarant’anni o più, ma ora dato il maltempo tornano a casa lasciando le mogli impiegate presso le famiglie.
Usciamo dalla tangenziale di Budapest e volgiamo ad oriente verso il confine romeno, il Danubio non sono neppure riuscita ad intuirlo. Iniziano le strade statali, bianche, che ci porteranno a destinazione. In alcuni tratti s’intravede il nero della carreggiata battuta, i sorpassi, a volte inevitabili a volte da “ritiro della patente”, sconfinano nella corsia opposta per evitare di percorrere la mezzeria innevata. I fari che giungono dall’ altra parte lampeggiano forsennatamente per avvertire gl’incauti autisti di riprendere la loro parte di strada.
Si cheta la tv, lo steward offre un giro di vodka, forse come anestetico per un tragitto che si fa sempre più complicato, pare che l’equipaggio suggerisca: “ora dormite”. Ma non si può perdere l’occasione della sosta, non foss’altro per fare due passi, così, quando Veronika, una bella signora cinquantenne mi dice “dai, scendiamo”, mi stropiccio gli occhi e guardo l’ora: l’una e quaranta, frontiera con la Romania.
L’ edificio non dà segni di vita, nessun doganiere all’orizzonte, solo la luce laggiù dei servizi. La maggior parte dei viaggiatori desiste e dato il vento gelido risale subito sul pullman che ha comunque fatto una sosta perché è apparso un militare dal “cappello laaaaargo”. Decido di accompagnare comunque Elèna e cominciamo ad’ incamminarci nella neve non battuta. Le raffiche c’inducono a camminare con la testa bassa e la delusione nel leggere la scritta illuminata “change” , che avevamo scambiato come la meta della nostra “passeggiata” è tale da indurre Elèna a riguardare con nostalgia il pullman che dista una cinquantina di metri e l’ altra luce davanti a noi che dista altri cinquanta. «Non ce la faccio, torno indietro», mi grida per farsi sentire oltre il vento. Tolgo il cappello di lana e glielo porgo, mi risistemo la sciarpa e le dico: «guarda che è lì, siamo arrivate!».
Arranchiamo con fatica e la sensazione di una spiaggia delle Maldive a gennaio, non è paragonabile al piacere provato nell’entrare nel caldo sgabuzzino. Non era previsto neppure l’obolo funzionale, ed il luogo non l’avrebbe certo meritato. All’uscita, il tacchino ha tentato di venirci incontro avvicinandosi come più poteva e strombazzando per farsi riconoscere: mi ricorda le campane di un rifugio tra le nebbia in montagna, mi scappa l’occhio sul termometro del cambio valute: – 25°.
Le luci del giorno rivelano un paesaggio ultra terreno: il bianco è l’unico colore, il pullman sobbalza e mi accorgo che stiamo già facendo gl’ ampi tornanti dei Carpazi. Non riconosco niente del viaggio di alcuni mesi fa, nessuna arnia al limitare del bosco, nessun pagliaio nei campi, solo qualche carretto tirato da uno stanco cavallo che porta i bidoni grigi del latte. Un’anziana coppia imbacuccata su un’anacronistica troika paiono il dottor Živago e Lara con la coperta sulle gambe, mi scappa un sorriso.
Lo steward serve i cornetti imbustati prelevati direttamente dalla borsa della Lidl, si sceglie thè o caffè.
Gli avvallamenti si susseguono, scendiamo e risaliamo mentre diminuiscono sempre più i veicoli che incrociamo. La gente si muove a piedi e cammina in mezzo all’unica carreggiata battuta altrimenti sprofonderebbe; l’imponente tacchino grida spesso per guadagnarsi la strada e il viandante si mette di lato guardandoci passare.
Lungo il percorso, ad una rotonda, appare un cartello “condizioni meteo non favorevoli”, nel caso non ci fossimo accorti della neve che cade fitta. Una macchina della polizia indica la direzione da seguire, l’autista impreca ed obbedisce. Ma non tutti i mali vengono per nuocere, infatti ci viene chiesto cosa vogliamo mangiare: il ragazzo più giovane dell’equipaggio prende le ordinazioni che verranno comunicate al ristorante lungo la strada dove ci fermeremo.
La bella struttura lascia intuire un buon flusso turistico nei mesi estivi, ora ci siamo solo noi. All’interno sono apparecchiati due tavoli: uno grande e rotondo per noi migranti di ritorno che si avventano su chorbe e zama, due tipi di minestra che vengono servite appena ci accomodiamo. Diversi piattini contengono peperoncini crudi, freschi e ciotole di panna acida con cui condire le minestre. Un altro tavolo è apparecchiato per sei – ecco quanti sono!- dove si accomoda l’equipaggio.
La sosta non dura più di venti minuti, la fretta di arrivare al confine moldavo è molta.
Mi pare che il peggio sia finito, il pullman mantiene una velocità costante, non eccessiva, niente sbandamenti, solo qualche brusca frenata per un cane imprudente o un pedone sordo.Il tepore dei giacigli facilita la digestione del leggero pasto, ma viene aiutato anche dal giro di “cordiale” offerto a bordo. Si riparte e al microfono Vladimir chiede «avete tutti il vostro vicino?».
Sono le ultime salite e nessuno scende dalla parte opposta, dovremmo farcela ad arrivare a Iasi, ultima città romena, prima del buio.
Avanziamo con rombi potenti sull’unica carreggiata battuta e dietro una curva si materializza il guaio: quattro frecce lampeggianti, il classico automobilista in panne. Cominciamo a strombazzare ed istintivamente tutti allungano il collo oltre i sedili, che succede ora? L’automobilista, a una cinquantina di metri, si sbraccia ad indicare la propria impossibilità a muoversi. Il nostro autista mormora qualcosa, scala in prima ed apre la portiera anteriore: quattro uomini dell’equipaggiano saltano giù in fretta e cominciano a correre per arrivare all’auto prima di noi …La situazione appare in tutta la sua gravità: altri tre uomini scattano dai loro sedili e corrono. Teniamo una velocità minima costante ed inesorabile per non fermarci. Non possiamo fermarci, non ripartiremmo o, peggio, si rischierebbe di scivolare indietro: dobbiamo rallentare il più possibile per consentire ai nostri d’intervenire. Scivolano nello sforzo delle spinte che stentano a trovare un sincronismo e quando ormai siamo a un passo, l’auto viene mossa e il gruppo che ci lascia sfilare sfiorandoli. Senza fermarci recuperiamo i nostri “butta fuori” ad uno ad uno, come se saltassero su un treno in corsa nel west degli anni trenta, dal più anziano al più giovane che deve correre di più. Parte l’applauso sull’ultimo recuperato e la strombazzata del tacchino: forse si scusa per aver lasciato l’automobilista ancora più in panne. La Tatiana si pettina, l’autista si accende una sigaretta.
Iasi. Sotto i cumuli tondeggianti s’intuiscono auto parcheggiate che rimarranno lì, forse in eterno! Si muovo i tram, qualche auto con catene e i quod con pala spazzaneve montata davanti. La gente non pare arrendersi all’estremo disagio e scarpetta veloce sui marciapiedi. Ha smesso di nevicare.
Arriviamo al confine moldavo e sta calando la luce. E’ l’unica frontiera vera e propria che oltrepassiamo. Sale un agente che ritira i passaporti dopo aver letto ad alta voce il nome sul documento e guardato negli occhi l’interessato. Non ci è consentito scendere, né io sono in vena di sommosse. Il mezzo non viene smontato, c’è solo un discreto vai e vieni dell’equipaggio che sfila con singole bottiglie di liquore prelevate dalle scatole del fondo. Dopo meno di un’ora ci lasciano ripartire. Oltrepassiamo il fiume Prut che è una lastra di ghiaccio e ad Ungheni, primo villaggio oltre confine, Eugene e le sue gambe lunghe scendono consentendomi un agio dimenticato.
Già i primi villaggi che incontriamo mi riportano ad un sapore familiare: intuisco i pozzi nei giardini bianchi, angoli di eternit spuntano dai tetti meno carichi di neve, come se il confine avesse posto una barriera anche alle tempeste che ci siamo lasciati alle spalle.
Chişinău dista una cinquantina di chilometri, e tra poco cominceranno le fermate nel nulla dove un’auto con le luci accese sarà l’inizio di una vacanza per Veronika e Tatiana che ripone il suo prezioso cuscino. Non ci sono saluti con grandi abbracci e scambi di numeri di telefono, solo l’augurio di buone cose. La corsa record che ci ha fatto bruciare la neve sotto di noi percorrendo i quasi duemila chilometri in meno di trentatré ore, non ha creato quel gruppo affiatato del mio precedente viaggio. Le soste non sono mai state lunghe, ma neppure quelle ai confini. Chi mai è interessato ad un pullman che ESCE dall’Europa? Anche gli stati d’animo erano diversi: grande assente la malinconia. Si va a casa, si torna tra i propri affetti e c’è davanti un sacco di tempo prima di ripensare di ripartire. La voglia e la felicità del ritorno vanno ben oltre le “condizioni meteo non favorevoli”. Anche il discreto numero di uomini ha fatto la differenza: l’ha fatta in termini fisici – e chi la spostava quella macchina?- ma anche in termini di minore confidenza concessa alla turista strana.
Il pullman si ferma nella periferia della capitale dove un taxi allertato dal perfetto Vladimir mi condurrà all’albergo, scelto con cura. Riprendo il bagaglio, abbraccio Elèna, ringrazio equipaggio e tacchino, al buio salgo sull’auto.
La mattina seguente, dopo una ricca colazione a base di aringhe, cetriolini e sidro, esco nella strada del centro. Già dalla finestra avevo visto i passanti imbacuccati , ma il bel sole mi aveva fatto sperare in qualcosa di meno gelido. Le folate di vento sollevano pulviscoli di ghiaccio, il trucco è non avere parti nude scoperte, il freddo non passa oltre lo strato di pelo e lana. E’un freddo molto secco, come mi spiega Igor impacchettandomi una matrioska. Effettivamente i – 15° non mi paiono drammatici. A passo svelto, nella città che riconosco, schivo le lastre di ghiaccio e decido di fare un salto nella cattedrale giusto per portare i saluti dell’angelo grigio.